di Luka Bogdanić

Circa un mese fa sono usciti i primi dati del censimento sulla popolazione in Croazia del 2011. Si tratta di dati parziali, relativi solo ad alcuni parametri: età, sesso, nazionalità e numero degli abitanti. Così apprendiamo che secondo il censimento del 2011, nella Repubblica di Croazia vivono 4.284.889 persone, di cui 2.066.335 sono maschi e 2.218.554 femmine, mentre l’età media della popolazione è di 41.7 anni. La città più grande è Zagabria con 790.017 abitanti, seguita da Spalato con 178.102 e Fiume con 128.624 abitanti.

Per la prima volta il numero di oltre sessantacinquenni ha superato il numero di quelli che ne hanno meno di 14 anni. In concreto, gli over 65 sono 106.205 in più. Se poi si analizza questo dato separando gli uomini dalle donne, il risultato è ancora più incisivo: ci sono 144.722 donne over 65 in più delle ragazzine sotto i 14 anni. In generale, una donna su cinque ha più di 65 anni. Insomma, la Croazia, almeno dal punto di vista dell’età, è un paese che si avvicina molto ai trend dei paesi più sviluppati dell’Unione Europea.

I serbi sono ancora la minoranza nazionale più grande del paese e rappresentano il 4,36% della popolazione, mentre nel 2001 (un anno dopo la morte di Tudjman) erano il 4,54%. In altre parole, in 10 anni il numero dei serbi è diminuito da 201.631 a 186.663, cioè del 7,4%. Si tratta di una diminuzione quasi nulla in paragone a quella che è avvenuta tra 1991-2001. Nel 1991 i serbi rappresentavano il 12,2 % della popolazione in Croazia (erano cioè 581.663), e nel 2001 erano rimasti in solo 201.631, ridotti al 4,45 %. Questo è il bilancio della politica nazionalista di Tudjman e della guerra civile.

Allora, come mai il numero dei serbi è ancora in diminuzione, anche se da anni non sono più in atto le pulizie etniche? A questa domanda si può rispondere in due modi complementari. Prima di tutto bisogna ammettere che ancora oggi essere un serbo in Croazia non è una posizione invidiabile. Ma per comprendere il calo di numero dei serbi, bisogna tenere presente il modo in cui è concepita l’identità nazionale nei Balcani, poiché la diminuzione dei serbi non indica che essi emigrano, ma semplicemente che smettono di essere serbi. Allo stesso modo in 32 anni è “scomparsa” la percentuale di 8,2% dei cittadini che 1981 si dichiaravano jugoslavi.

In realtà, il numero di serbi in Croazia, per vari motivi, fluttuava un po’ da sempre. Così nel 1981 (un anno dopo la morte di Tito) i serbi erano l’11,5%. Un lieve aumento di questi tra 1981 e 1991 (dall’11,5 % al 12,2%), è spiegabile attraverso il calo di coloro che si dichiaravano jugoslavi.

Inoltre, è interessante che il numero degli jugoslavi (e questi potevano essere croati, serbi, bosniaci, o gente nata da matrimoni misti, ma anche chiunque sia e di qualunque origine fosse) scendeva regolarmente nelle stagioni in cui fioriva il nazionalismo. Così ad esempio, nel 1971 coloro che si dichiaravano jugoslavi in Croazia erano soltanto il 1,9%, mentre nel 1981 il loro numero era cresciuto a 8,2%, il che faceva della Croazia la Repubblica con maggior numero di cittadini che si sentissero jugoslavi; essa era seguita da Bosnia ed Erzegovina, in cui gli jugoslavi erano il 7,9% della popolazione. Soltanto nella regione autonoma della Vojvodina gli jugoslavi ammontavano all’8,2%. In Serbia, senza le regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina, la percentuale degli jugoslavi era del 4,8 %. Già nel 1991 coloro che si dichiaravano tali in Croazia non superava il 2,22 %. Com’è possibile questa fluttuazione d’identità nazionale, se si esclude la pulizia etnica degli anni Novanta?

Prima di tutto, per risponderne, bisogna tenere presente che la domanda che si poneva alla gente durante il censimento non era di natura linguistica; cioè non si chiedeva quale è la tua lingua madre, ma di quale nazionalità sei. Nei territori dell’ex Jugoslavia si appartiene ad una nazionalità non in virtù della lingua, ma in virtù del proprio sentimento d’appartenenza. Così era prima nella Jugoslava socialista e così è rimasto ancora oggi in Croazia. Inoltre è da rilevare che non è contemplato il concetto di minoranza linguistica, come lo è in Italia.

Questo in virtù del fatto che serbi e croati parlano la stessa lingua e precisamente in molti posti, città e villaggi in cui convivono da secoli, parlano anche lo stesso dialetto. La paradossalità del parametro linguistico, si evince benissimo se si tiene presente che serbo e croato si differenziano nella versione parlata dai serbi o quella parlata dai croati, meno di quanto si differenziano i dialetti italiani dal nord al sud. La principale differenza sta nel fatto che i serbi in generale, ma non sempre, usano l’alfabeto cirillico, mentre i croati usano esclusivamente l’alfabeto latino. La stessa lingua, con minime differenze, quasi dialettali-regionali, è parlata in Montenegro e Bosnia ed Erzegovina. A prescindere da questa ovvietà, dal 1991 in Croazia, ma anche in altre repubbliche, è in atto una forte propaganda a favore di una sorta di autarchia linguistica, che lavora per aumentare le diversità dei modi di parlare. Di conseguenza, la stessa denominazione serbo-croato o croato-serbo, è stata demonizzata. Tenendo a mente questo fatto, il censimento del 2011 si presenta ancora più caustico se letto sotto la luce del parametro linguistico poiché: 4.096.306 di persone hanno dichiarato come madre lingua il croato, 3.059 hanno detto di essere di madre lingua croato-serba, 16.856 di essere di madre lingua bosniaca, 876 di essere di quella montenegrina, 52.879 di essere di lingua serba e 7.822 di essere di madre lingua serbo-croata. Insomma, il censimento registra ben 6 modi di denominare la stessa lingua!

Nelle percentuali si ha la seguente situazione: il 95,60% ha dichiarato come propria madre lingua il croato, l’1,2 % serbo e lo 0,07% il croato-serbo. L’ultimo dato è abbastanza paradossale, poiché nel 2001 coloro che dichiararono il croato-serbo come madre lingua erano solo lo 0,05%. In altre parole, la gente che parla croato-serbo aumenta.

Se è da credere al censimento del 1991 (fatto con la guerra quasi in atto), quando i serbi in Croazia risultavano essere il 12,6 %, solo il 4,33% di popolazione complessiva della Croazia dichiarava come madre lingua il serbo, mentre il 6,03% dichiarava il serbo-croato e il 3,49% il croato-serbo.

La maggiore differenza tra le due popolazioni, ed a volte unica, è la religione (in particolare nei luoghi in cui da secoli convivono assieme). I serbi sono ortodossi e i croati cattolici. Dalla differenza religiosa derivano maggiori o minori diversità relative ad usi, costumi e tradizioni. Se si guarda all’ultimo censimento, diventa evidente che il numero degli ortodossi e dei serbi coincide alquanto. Gli ortodossi sono il 4,44 %, mentre i serbi sono il 4,35%. Ammesso, ma non concesso, che la religione per la maggior parte rappresenti la tradizione e la cultura (quasi nel senso Crociano, per cui “tutti siamo cristiani”) e non tanto la fede, cioè l’effettiva devozione religiosa, non si può negare l’esistenza di serbi che si dichiarano atei. Secondo il censimento del 2011, in Croazia ci sono 19.394 serbi atei e agnostici, come pure 16.647 croati ortodossi, ma anche 2.391 serbi cattolici. Per capire quanto è in fin dei conti arbitraria l’autodeterminazione nazionale nei Balcani, poiché non è fondata né sulla lingua né sull’origine etnica (almeno per gli slavi), e non é concepita neppure come cittadinanza, è istruttivo il caso degli ebrei.

Nel 2011 si sono dichiarati cittadini di nazionalità ebraica 509 persone, di cui 14 di religione cattolica, 3 ortodossa, 1 protestante, 3 appartenenti alle altre religioni cristiane, 266 hanno dichiarato di essere di religione ebraica, 2 di appartenere alle religioni orientali, 2 ad altre religioni non meglio classificate, 30 hanno dichiarato di essere agnostici, 147 di essere atei, 39 non hanno dichiarato la loro apparenza religiosa e 2 persone hanno dichiarato convinzioni che sono state classificate come sconosciute. Per avere un quadro completo bisogna, però, aggiungere alle 509 persone di nazionalità ebraica, altre 536 persone che hanno dichiarato di essere di nazionalità croata, ma di fede ebraica.

Insomma, alla domanda quanti sono gli ebrei in Croazia, si può rispondere solo se si precisa cosa s’ intenda per ebreo. In altre parole, se si volesse trarre il parametro d’ebraicità dal censimento, si cadrebbe in circolo vizioso. Paradossalmente, i fatti empirici in questo caso non aiutano.

Escludendo le minoranze nazionali d’origine non slava (italiani, ungheresi, albanesi e romeni o altri ceppi slavi come ucraini, russi e cechi) è veramente difficile capire dove passa la linea di distinzione tra la nazionalità dei serbi, dei croati e dei bosniaci.

Questa difficoltà non deriva solo dal fatto che le nazioni sono comunità immaginarie, e quelle slave del sud anche immaginate, ma anche perché le vicissitudini della storia hanno determinato nei Balcani un altro modo di concepire l’identità nazionale, diverso da quello che si è affermato nell’Europa Occidentale. In realtà, la gente, rispondendo alla domanda a quale religione appartiene, risponde sulla propria origine religiosa piuttosto che in merito alle proprie effettive convinzioni religiose. Infatti, solo se si parla di tradizione religiosa è possibile capire la vera ragione per cui in Croazia l’86,28 % della popolazioni si è dichiarata cattolica.

Le ragioni di una tale importanza del fattore religioso nell’autodeterminazione nazionale vanno cercate nel sistema amministrativo dell’Impero Ottomano. In questo non esisteva la distinzione tra leggi secolari e quelle religiose, e l’Impero suddivideva le popolazioni nei millet in base alla religione. Si trattava di comunità religiose non territoriali, che conservavano il privilegio di amministrare da sole la propria legge.

Come scrive B. Jezernik in Europa Selvaggia “I giaours (infedeli) erano soggetti a seguaci del Profeta, ma […] godevano di una relativa indipendenza e potevano conservare la nazionalità, lingua e usanze proprie. Tali eccezionali circostanze storiche spiegano perché per i cristiani il patriottismo consisteva essenzialmente nell’attaccamento alle proprie comunità religiose” [Torino, 2010, p. 239]. D’altra parte, i turchi erano una casta superiore, e per farne parte bastava abbracciare la religione musulmana. Sempre secondo Jezernik, che riporta le impressioni di viaggiatori occidentali dell’Ottocento nei Balcani, non era raro imbattersi in due fratelli che si dichiaravano di due nazionalità diverse, come pure si potevano trovare quelli che si proclamavano greci, “anche se non parlava una parola di quella lingua” [p. 241]. Gli occidentali ritenevano strano questo modo di “concepire la nazionalità, e si meravigliavano che nei Balcani fosse determinata dall’apparenza religiosa, e non da criteri etno-linguistici” [p. 239]. Per loro era come se si “considerasse irlandese un londinese di religione cattolica romana, o scozzese un presbiteriano che abita a New York, di origini tedesche” [ibidem].

Insomma nei Balcani abbiamo a che fare con un modo molto antico di concepire l’identità nazionale, il quale a priori non porta a seclusione, né è intollerante, che però difficilmente si sposa con i modi di concepire l’identità su cui si basano agli assetti istituzional-politici tipici dell’Occidente. Nella storia possiamo trovare almeno alcuni tentativi di modernizzazione-occidentalizzazione delle diversità nazionali nei Balcani occidentali. Il primo è quello della Jugoslavia regia (1918-41), nella quale si cercava d’imporre l’identità jugoslava a tutti partendo dall’elemento linguistico, a prescindere dalle reali diversità soprattutto economiche e materiali, ma anche storiche.

Il secondo è quello basato sulla pulizia etnica (ispirata al modello nazista), messa in atto dagli ustascia croati e dei cetnici serbi nel periodo 1941-45. Così ad esempio, durante lo Stato fantoccio croato, i serbi della Croazia, oltre ad essere fisicamente eliminati nei campi di sterminio assieme ai rom ed gli ebrei, sono stati pure forzatamente convertiti al cattolicesimo e il terzo rimanente della popolazione serba veniva dichiarato croato di religione ortodossa (in attesa di una assimilazione).

Il terzo tentativo di modernizzazione-risoluzione della questione nazionale era quello socialista, in cui da una parte l’identità nazionale rimaneva concepita in modo tradizionale e si cercava di garantirne lo sviluppo, ma dall’altra si volevano armonizzare le diversità attraverso la partecipazione ad una comune cultura socialista. Quest’ultima era concepita come l’universale all’interno del quale si potevano realizzare le diversità particolari, senza entrare in conflitto, poiché unite da una cultura superiore e universale, appunto dalla cultura internazionalista e socialista. Questa era il vero collante della seconda Jugoslavia.

Fallita la superiore identità comune, fallì anche questo progetto. Le pulizie etniche degli anni Novanta del Novecento in questo senso non sono altro che la brutale prova che la storia non si può cancellare, né ignorare, se non ad altissimi costi, poiché il districarsi degli interessi non avviene quasi mai pacificamente e senza vittime umane. D’altra parte, alcuni politici che erano al potere in Croazia negli anni Novanta, combinando la pulizia etnica al concetto di spostamento delle popolazioni, hanno ottenuto quello che neppure gli ustascia erano riusciti a fare, cioè una Croazia etnicamente omogenea, o quasi.

 

Commento (1)

  • jo
    jo
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    Una vera cacafonia. Al posto di riunirvi, preferite distruggervi entrambi. Prendiamo almeno l’esempio degli stati uniti o adesso dell’UE.Ma…. troppo complesso la loro storia quando sopratutto ognuno pensa di aver ragione..
    Leggendo il suo articolo, credo di aver capito chi è il colpevole.

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