di Alessandro Campi
La domanda che molti osservatori si sono fatti in questi giorni, in previsione dell’incontro bolognese promosso dalla Lega, è chi al termine della manifestazione sarebbe stato consacrato dai presenti come leader del centrodestra: il declinante Berlusconi o l’arrembante Salvini?
Ma era la domanda sbagliata, o forse solo prematura, considerata quella essenziale e decisiva solo perché ormai ci siamo abituati a leggere la politica in una chiave riduttivamente personalistica e televisiva: partendo dai capi e dalle loro performance oratorie e trascurando quel che essi hanno dietro di sé in termini di interessi materiali e di forze sociali. Così come è stato sbagliato pensare che l’incontro di ieri avesse come unico o principale obiettivo quello di riunificare il centrodestra, secondo lo schema conosciuto a partire dal 1994 anche se con protagonisti in parte nuovi, dopo le divisioni, i contrasti e le defezioni degli ultimi tempi.
Salvini ha certamente grandi ambizioni per il suo futuro. E ha chiaramente fatto intendere, già da tempo, che il Cavaliere non ha più le risorse, politiche e fisiche, per agire come il federatore-padrone di quel vasto arcipelago che va sotto l’etichetta ambigua di “moderati”. Non c’era bisogno di organizzare un raduno per ribadire questi punti, in sé evidenti. Quest’ultimo gli serviva piuttosto per chiarire, come è appunto accaduto, il senso autentico del suo progetto politico. Che davvero ha poco a che fare col berlusconismo convenzionalmente inteso o con quel che è stata l’alleanza di centrodestra, tra alti e bassi, per quasi un ventennio.
È bastato sentire e vedere coloro che hanno parlato prima della Meloni, di Berlusconi e dello stesso Salvini – il pescatore ligure, l’insegnante precaria calabrese, il pensionato esodato, l’artigiano vessato dalle banche, il piccolo agricoltore che non sa a chi vendere i suoi prodotti, lo studente preoccupato del proprio futuro, il poliziotto inviperito con lo Stato che gli mega mezzi e risorse, i rappresentanti delle associazioni che difendono la famiglia naturale – per comprendere cosa quest’ultimo ha in testa di costruire: l’aggregazione politica dei ceti e gruppi sociali messi alle corde dalla crisi economico-finanziaria e ostili ad una globalizzazione accusata di produrre solo sradicamento culturale, insicurezza, confusione dei ruoli e perdita delle antiche identità.
Il Berlusconi che si affacciò sulla scena politica parlava a nome di un’Italia rampante, dinamica e persino godereccia. Si rivolgeva, con toni ottimistici, ai cosiddetti spiriti animali, imprenditoriali e professionali, che la partitocrazia della Prima Repubblica (per fortuna sgominata dalla magistratura) aveva sin lì represso o sfruttato e che lui avrebbe invece liberato con l’obiettivo di far crescere il benessere degli italiani. La sua proposta politica era sognante e vincente, mossa da un grande entusiasmo. Parlava insomma a chi aveva sogni nel cassetto da realizzare.
Salvini ha scelto invece di parlare a chi ha incubi diurni da scacciare: non ai rampanti (a quelli, a suo giudizio, ci pensa ormai Renzi), ma all’Italia “umile, semplice, ma laboriosa”. La sua proposta punta ad essere rassicurante (“Vogliamo città aperte, serene, accoglienti, sicure”) a partire dalle molte paure che oggi attraversano il corpo sociale. Si ha paura del lavoro che manca, dell’immigrazione incontrollata, dei furti nelle case, dello Stato rapace e controllore, di ciò che tra un po’ troveremo nel nostro piatto (insetti e alghe invece della pizza e del pane e salame), del fatto che tra un po’ non sapremo nemmeno chi sono i nostri progenitori sulle cui tombe portare un fiore. Gli altri politici rifuggono queste preoccupazioni, Salvini ha scelto di farsene politicamente carico e di sfruttarle dal punto di vista elettorale.
Il populismo della destra, spesso ridotto ad uno stile urlante e sguaiato, per come si è chiaramente presentato ieri si vuole soprattutto come una forma di realismo popolare, come la ricerca di poche ma solide certezze, rispetto al “mondo capovolto” (dall’utero in affitto alla difesa di tutte le religione del mondo tranne che di quella cristiana) che la sinistra – snob ed elitaria – invece irresponsabilmente asseconda e sostiene, come proprio la Meloni ha urlato. Ma molte altre cose si sono sentite ieri: le accuse alle multinazionali del farmaco e dell’agro-alimentare di stravolgere per interesse i nostri comportamenti quotidiani e le nostre abitudini, l’idea di un’Europa ormai in mano agli usurai, la richiesta che a scuola si insegnino solo i valori sani, il richiamo alle tradizioni sociali, morali e culinarie contro la cultura dell’omologazione universale e del relativismo. Temi forti e controversi, anche se non del tutto infondati e sui quali la politica ufficiale troppo facilmente sorvola.
Ma su queste basi si costruisce un contenitore dei delusi e degli arrabbiati, non una forza di governo. E’ in questa debolezza che Berlusconi – con la sua scelta di essere ieri a Bologna –pensa evidentemente di potersi ancora inserire, con l’idea di garantire una qualche interlocuzione col mondo produttivo, col tanto vituperato dai populisti establishment istituzionale, col ceto borghese-professionale, coi moderati e liberali in senso proprio.
Il problema – come si è visto dal suo intervento: una litania di statistiche e sondaggi e un deja vu programmatico che hanno ben presto stancato la piazza e che gli hanno procurato qualche fischio – è che il Cavaliere ha in testa uno schema politico, un sistema di alleanze sociali e un’immagine di sé che sono ancora quelli di vent’anni fa e che non si possono applicare in maniera meccanica e all’infinito. Ieri dovrebbe aver capito, in realtà, che il centrodestra come lui l’ha creato è morto per sempre. Non è un problema di leadership e di uomini, ad esempio l’emersione nel frattempo di Renzi e Grillo, ma di basi materiali e di umore sociale. L’Italia è profondamente cambiata negli ultimi anni (ahimé in peggio) e l’offerta politica con essa: Matteo a destra l’ha capito, Silvio ancora no.
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