di Nicolò Canonico

l43-giappone-armi-140402145714_bigIl 1° luglio 2014 il Governo giapponese presieduto dal Primo Ministro Shinzo Abe ha approvato un paper per la reinterpretazione dell’articolo 9 della Costituzione del 1947, che obbliga il Paese a rinunciare “alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le dispute internazionali”. In esso sono contenute delle risposte ad alcuni scenari di sicurezza divise in tre punti: primo, replica a una violazione non di tipo armato; secondo, ulteriori contributi alla pace e alla stabilità della comunità internazionale; terzo, misure per l’auto-difesa permesse ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione.

Il Giappone ha sin qui potuto disporre delle sole Forze di auto-difesa (Jieitai), create nel secondo dopoguerra con lo scopo di respingere eventuali attacchi esterni, ma senza possibilità di proiettarsi al di fuori dei confini nazionali. Per lungo tempo le uniche operazioni all’estero che le truppe del Sol Levante hanno potuto effettuare sono state quelle di supporto tecnico alle missioni di peacekeeping dell’ONU. Una prima svolta rispetto al precetto costituzionale si è avuta nel 2009, quando il primo ministro dell’epoca, Taro Aso, ha approvato l’invio di una task force navale composta da alcuni cacciatorpedinieri a sostegno della coalizione internazionale impegnata nella lotta alla pirateria nel Golfo di Aden. Una mossa molto discussa, che ha diviso l’opinione pubblica del Paese ed è stata giustificata in quanto essenziale per la difesa delle navi che transitano in uno dei principali snodi del commercio internazionale.

La presenza giapponese nell’area è andata a consolidarsi con l’installazione di una base militare a Gibuti, la prima al di fuori dei confini nazionali. Ad essa è seguito il varo di tre portaelicotteri, due della classe Hyuga e una della classe Izumo. Queste ultime, seppur sprovviste di sistemi per il decollo di velivoli ad ala fissa, come lo statunitense F-35 B, segnano un importante passo avanti della cantieristica giapponese per quanto riguarda lo sviluppo di unità navali tuttoponte, e pongono dunque le basi per il futuro sviluppo di vere e proprie portaerei.

Quel che resta valido è il graduale ma evidente tentativo delle Forze di auto-difesa di proiettare potenza fuori dal proprio territorio, per riacquistare un ruolo di primo piano sulla scena mondiale. La revisione della “clausola della pace” è il frutto di anni di dibattiti interni al Giappone. L’Estremo Oriente si trova infatti in una situazione di grande turbolenza, in cui vari attori stanno provando a modificare lo status quo a proprio vantaggio: tra questi ci sono sicuramente la Cina, in grande espansione economica, che sta cercando di ampliare la propria influenza nel Mare Cinese Meridionale e nel Pacifico Occidentale per il controllo delle rotte commerciali e la Corea del Nord, con la costante provocazione dello sviluppo del programma missilistico.

Tutto ciò sta portando vari Paesi della regione a dotarsi delle necessarie contromisure: tra questi anche il Giappone che per l’attuale anno finanziario, iniziato nel marzo scorso, ha stanziato 4˙980 miliardi di yen (42 miliardi di dollari) per le spese militari. Una cifra di grande rilievo, nettamente superiore rispetto al passato: per giustificare tale aumento, il Governo Abe ha fatto leva proprio sugli atteggiamenti ostili mostrati da Corea del Nord e Cina.

Da quando è diventato il nuovo leader nordcoreano, Kim Jong-un ha già dimostrato di poter ricattare le potenze regionali e mondiali utilizzando lo spettro missilistico come strumento di pressione per ottenere aiuti economici e limitare le proteste della comunità internazionale per il mancato rispetto dei diritti umani. Le analisi svolte da diversi esperti militari lasciano pensare che quello di Kim sia stato fin qui un bluff, utile ad accreditarlo come degno erede del padre alla guida del Paese, ma le poche informazioni trapelate non consentono al Giappone di considerarsi completamente fuori pericolo. Nel marzo 2014 la Corea del Nord ha svolto un test lanciando due missili balistici di medio raggio classe Rodong nel Mar del Giappone, provocando così la risposta dell’allora Ministro della Difesa Itsunori Onodera, il quale ha disposto il dispiegamento di un cacciatorpediniere lanciamissili dotato di sistema Aegis in grado di intercettare altri eventuali lanci ordinati da Pyongyang.

Per rispondere a tale minaccia il Sol Levante ha puntato sulle Forze di auto-difesa marittima, le quali dispongono di 124 navi di varia tipologia, dalle dragamine ai già citati cacciatorpedinieri lanciamissili classe Atago (10˙000t) e Kongō (9˙500t), passando per i sottomarini di ultima generazione classe Sōryū.

Ancora più preoccupante per il Governo di Tokyo è l’atteggiamento della Cina: nel 2013 Pechino ha istituito una zona d’identificazione aerea sul Mare Cinese Orientale che supera il limite della zona economica esclusiva e ingloba le Senkaku. Queste ultime, chiamate Diaoyu dai cinesi, sono delle piccole isole amministrate dal Giappone, teatro di una lunga disputa che risale al 1895 riaccesasi negli ultimi anni. Pechino sta da tempo portando avanti una serie di rivendicazioni su vari atolli situati nel Mar Cinese Orientale e Meridionale: oltre alle Senkaku/Diaoyu, infatti, le pretese della Repubblica Popolare si sono estese alle isole Spratly e alle Paracel, fondamentali per il controllo della rotta commerciale che passa dallo Stretto di Malacca e risale fino alle coste cinesi e alla Corea. Rinunciare alle Diaoyu significherebbe concedere ai vari Stati del sud-est asiatico che si contendono le Spratly e le Paracel l’occasione di contrastare con più forza le claim della Cina. D’altra parte, la difesa di tale via marittima ha una valenza decisiva anche per il Giappone: attraverso di essa passano l’80% del petrolio importato per uso interno, divenuto fondamentale tra il 2011 e il 2013 dopo la temporanea chiusura degli impianti nucleari a causa del forte sisma che ha colpito il Paese, e i prodotti tecnologici esportati verso ovest.

La controversia sta avendo una certa risonanza a livello internazionale poiché coinvolge anche gli Stati Uniti: questi sono infatti legati al Giappone dal Trattato di mutua cooperazione e sicurezza siglato nel 1960, il quale prevede la stretta collaborazione tra i due Paesi nel caso in cui uno Stato terzo attaccasse il Giappone o gli Stati Uniti all’interno del territorio nipponico. Inizialmente la strategia attuata dalla diplomazia statunitense prevedeva il mantenimento di una posizione neutrale nella disputa, ma dopo le ripetute minacce giunte da Pechino l’allora Segretario alla Difesa Leon Panetta ha affermato che le isole Senkaku rientrano nell’ambito territoriale previsto dal Trattato di mutua cooperazione e sicurezza e che un eventuale conflitto armato tra Cina e Giappone costringerebbe gli USA ad intervenire.

La collaborazione tra i due Paesi è tornata in primo piano nel secondo mandato presidenziale di Obama, il quale ha individuato nell’Asia Orientale il nuovo fulcro della politica estera e commerciale statunitense. L’amministrazione americana punta fortemente sull’alleanza con il Giappone per tenere sotto controllo la zona dal punto di vista militare: recentemente il neo Ministro della Difesa Gen Nakatani ha comunicato l’acquisto di tre APR da ricognizione, gli RQ-4 Global Hawk, che avranno il compito di monitorare le eventuali mosse provocatorie da parte di Pyongyang e dalla Cina, e di un E-2D Advanced Hawkeye con capacità AWACS, entrambi progettati e sviluppati dalla statunitense Northrop Grumman.

Il riarmo del Giappone non ha il solo scopo di garantire la sicurezza rispetto a eventuali attacchi esterni, bensì rientra in una strategia più ampia che in base ai piani del primo ministro Abe consentirà al Paese di uscire definitivamente dalla crisi economica. Con la già ricordata revisione dell’articolo 9 della Costituzione, il Governo ha allentato il vincolo che impediva allo Stato di vendere i propri armamenti ad altri Paesi. L’industria nipponica è conosciuta a livello internazionale per le competenze in fatto di tecnologia, che le hanno permesso un notevole sviluppo anche in campo militare: nel budget della Difesa per il 2015 è previsto l’acquisto di venti aerei Kawasaki P-1 per il pattugliamento marittimo, con avionica sviluppata da aziende giapponesi leader nel campo dell’elettronica quali Toshiba, NEC, Shinko e Mitsubishi. Altra linfa per il comparto industriale giapponese proverrà dall’assemblaggio e dalla manutenzione dei Joint Fight Striker F-35, sviluppati dagli Stati Uniti e destinati, tra gli altri, all’aeronautica nipponica. Nei prossimi anni, infatti, lo Stato asiatico acquisterà 42 F-35-A, la versione del velivolo ad atterraggio e decollo convenzionale, non destinata, dunque, all’eventuale imbarco su portaerei.

Il trend dell’ultimo periodo vede perciò il Giappone decisamente più attivo in politica estera: recentemente il Primo Ministro Abe ha potuto siglare un accordo con l’omologo malese per la cessione di tecnologia militare, probabilmente sistemi radar, e di entrare in competizione con Francia e Germania per aggiudicarsi la commessa per la fabbricazione di sottomarini sul modello dei Sōryū da vendere all’Australia.

Il percorso appare dunque tracciato: il Giappone vuole rilanciare la propria economia cercando di sviluppare settori che sono stati sin qui repressi dai precetti costituzionali e continuerà a far leva sulle proprie competenze in materia di tecnologia e supporto logistico per convincere la comunità internazionale che l’incremento delle proprie capacità militari è una necessità dettata dal bisogno di tutelare i propri interessi commerciali ed economici, e di rientrare così nel novero delle potenze mondiali.

 

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