di Alessandro Campi

untitledMatteo Renzi è senza dubbio il protagonista – per non dire il dominus – della prossima partita per il Quirinale. Per almeno tre ragioni. È il presidente del consiglio in carica, alla guida di un esecutivo costruito a sua immagine e somiglianza, sostenuto altresì da una maggioranza parlamentare vasta e trasversale. È il leader del maggior partito italiano, che ha conquistato sbaragliando la vecchia guardia che in tutti i modi ha cercato di frenarne l’ascesa e che ha portato ad una strabiliante affermazione alle ultime elezioni europee. Soprattutto è l’uomo nuovo della scena politica nazionale, sulla quale sembra muoversi senza avversari che possano realmente metterlo in difficoltà: le sue parole d’ordine, il suo stile comunicativo, le sue scelte di governo sulle diverse materie (si tratti di riforme istituzionali, di lotta alla disoccupazione o di politica scolastica) hanno impresso nella vita pubblica un cambiamento oggettivo e profondo, che nemmeno i suoi critici più accaniti possono negare, anche quando ne contestino i risultati raggiunti.

Per tutte queste ragioni il prossimo Capo dello Stato, come molti sostengono, non potrà che riflettere quello che già abitualmente si chiama il “renzismo”: una visione politica tutta costruita sulla retorica dell’innovazione e del ricambio generazionale, sulla mistica del capo politico che parla direttamente con i cittadini e non accetta mediazioni o filtri, sul mito dell’efficienza e della velocità, sull’esaltazione dell’ottimismo e del futuro, su un’idea della democrazia che sembra non tenere in gran conto il ruolo dei corpo intermedi, delle associazioni di categoria e degli interessi organizzati.

Se Renzi vuole essere coerente con l’immagine di sé costruita nel corso di pochi anni e grazie alla quale ha conquistato un vasto consenso nel Paese, difficilmente potrà accettare per il Colle una personalità che non rifletta i tratti salienti del suo carattere e del suo programma d’azione. Si è visto come si è già mosso nella scelta dei ministri, del commissario italiano in Europa, dei vertici delle aziende partecipate dallo Stato, dei suoi più stretti collaboratori. Perché dovrebbe comportarsi diversamente per il Quirinale, rinunciando a mandare l’ennesimo segnale di un radicale cambiamento ad un’opinione pubblica a sua volta affamata di novità e di svolte?

In realtà, ci sono almeno due seri motivi che potrebbero spingere Renzi ad adottare, in questa delicata occasione, uno stile meno arrembante e solitario, che potrebbero convincerlo a muoversi con maggiore prudenza tattica, sino ad accettare per il ruolo di Presidente della Repubblica una figura più nel solco della tradizione, invece dell’uomo (o della donna) a sorpresa che molti si aspettano. Una figura che sia altresì autorevole e politicamente autonoma e non, come argomentano i maligni, un notaio scelto soprattutto per non fare ombra al suo grande elettore.

Il primo motivo, se si vuole il più ovvio e banale, ha a che vedere con la particolare natura dell’istituzione presidenziale. Si tratta di una carica diversa da tutte le altre, visto il ruolo assolutamente centrale che essa riveste all’interno del nostro ordinamento costituzionale. È una magistratura dotata di non pochi poteri discrezionali e di un ampio margine d’intervento politico, che merita di essere occupata da chi abbia, oltre che esperienza politico-parlamentare, anche doti d’equilibrio, una significativa conoscenza della macchina statale e una sua intrinseca autonomia di giudizio.

Quella del Capo dello Stato – al tempo stesso garante della stabilità istituzionale e rappresentante dell’unità dello Stato, verso l’interno e verso l’esterno – non è dunque una scelta che si presti a colpi di teatro o a operazioni d’immagine. Lo si comprende anche dall’attenzione con la quale a livello internazionale, nelle diverse cancellerie, si sta seguendo la discussione tra partiti sul successore di Napolitano. Al Quirinale i nostri partner internazionali non si aspettano un soggetto simpatico, un giovane di bella presenza o un politico forte solo della sua inesperienza, ma un interlocutore serio, preparato e affidabile.

Il secondo e più fondato motivo ha invece a che fare con la necessità, dinnanzi alla quale ormai Renzi si trova, ad operare un salto di qualità nel suo modo di concepire la dialettica politica e di operare in veste di uomo di governo. Le parole d’ordine della rottamazione e del giovanilismo gli sono servite per affermarsi alla stregua di un’autentica novità su una scena politica altrimenti statica e incline alla conservazione. Gli attacchi alla burocrazia statale, ai sindacati e alle corporazioni professionali gli sono serviti per mettere a nudo i limiti di un modello di democrazia rappresentativo-consensuale, quale quello italiano, nel quale il diritto di veto e la difesa delle posizioni di potere dei gruppi organizzati hanno sempre contato più della capacità decisionale e del perseguimento dell’utile collettivo.

Ma nella sua lotta, largamente condivisibile, tesa a innovare il sistema politico-istituzionale italiano e a scardinarne le incrostazioni parassitarie Renzi deve evitare di scadere – come è ad esempio capitato a Silvio Berlusconi nel recente passato – in una visione semplificata dei processi sociali e politici che sono alla base del funzionamento di ogni grande democrazia. Deve cioè evitare di scadere nel populismo o di pensare che basti la forza di volontà di un singolo per cambiare nel profondo una realtà vischiosa come quella italiana. Al tempo stesso deve rendersi conto che il suo progetto politico riformatore, se non vuole limitarsi agli annunci e ai buoni propositi, ha bisogno di un perno istituzionale forte intorno al quale far ruotare scelte e decisioni che, proprio perché innovative, sono destinate ad incontrare fatalmente delle resistenze di tipo corporativo e a suscitare malumori elettorali.

L’esperienza dell’ultimo anno d’altronde parla chiaro. È stato grazie all’incitamento di Napolitano e al sostegno politico-istituzionale offerto da quest’ultimo che Renzi ha potuto declinare, tra molte opposizioni e difficoltà, un’agenda di governo assai ambiziosa e al tempo stesso particolarmente innovativa. Non si tratta naturalmente di mettersi sotto la tutela di chi ne prenderà il posto al Quirinale. Si tratta di vedere in quest’ultimo un alleato tanto prezioso quanto necessario, purché ad occupare quella poltrona sia qualcuno mosso non solo dallo stesso afflato riformatore di Renzi, ma anche dall’autorevolezza, dalla serietà e dalle competenze tecniche richieste a chi a breve sarà chiamato a rappresentare l’Italia al suo massimo livello politico-costituzionale.

 * Editoriale apparso sul quotidiano “Il Mattino” (Napoli) del 20 gennaio 2015.

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