di Danilo Breschi
Non c’è scampo, non ce n’è proprio, allo scorrere inesorabile del tempo. Si precipita come bisonti impauriti in un burrone, e ciò accade più in fretta se troppo presto e senza filtri si prende coscienza di quell’essere morituro che ciascuno di noi è. Si pensi alla leggenda dell’appuntamento a Samarra, poi diventata Samarcanda una volta messa in musica popolare da Roberto Vecchioni. Però sapere quale è la fine non vuol dire necessariamente accelerarla. Se della necessità non si può fare a meno, si provi almeno a far sì che questa assenza di rimedio e alternativa – che è poi l’essenza del tragico – resti fuori di noi, ci opprima ma non ci penetri. Ma come fare perché questa resistenza prenda forma? Come apprenderla?
Proviamo ad ascoltare questo suggerimento di Simone Weil: “Sono convinta che la sventura da un lato, dall’altro la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicando entrambe la perdita dell’esistenza personale, siano le uniche chiavi mediante le quali si entra nel paese puro, il paese respirabile; il paese del reale”. Aderire alle cose sapendo che alcune ci lasceranno presto, altre sopravvivranno a noi, e che tutti noi siamo i più transitori tra gli esseri che solcano questa terra, ma sapendo anche che alcuni saranno tra i più duraturi. E perché mai questa distinzione, questa discriminazione? Che sia una discriminazione è poi tutto da dimostrare, perché spesso colui che porta addosso il segno della durata sconta in vita il presunto privilegio. Le biografie di molti scrittori e artisti testimoniano in tal senso. Sempre la Weil, e sempre nella sua corrispondenza con Joë Bousquet, ci ricorda che “a pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono”. È questione di “attenzione”, da lei intesa come “la forma più rara e più pura di generosità”.
Insomma, solo a sottrarsi si trattiene qualcosa di simile alla vita, ma che, a dire il vero, di essa è solo il racconto, la rappresentazione, scritta, dipinta, scolpita, musicata. Per quanto ci possa talvolta capitare di cogliere una delle immagini che condensano una vita – e se ognuno vi prestasse attenzione, si accorgerebbe che almeno una volta ciò accade –, mancherà alla stragrande maggioranza la parola, la forza, l’equilibrio, la formula esatta che carpisce il senso delle cose e lo imbottiglia come un’essenza preziosa, un profumo esotico e straniante.
Insegnare che questo la letteratura, soltanto lei, sa fare è stata ed è, ad esempio, l’intenzione dichiarata di uno studioso come Piero Boitani, impegnato qualche anno fa ad impostare una “Prima lezione sulla letteratura” (Laterza 2007). La letteratura vale davvero assai poco se essa non è “un’immagine di vita”, bella come una statua romana che raffigura la musa Polimnia, il cui sguardo racchiude e sprigiona la nostalgia, il desiderio, l’intensità di sentimento e di espressione, in una parola la “Sehnsucht” cara ai filosofi, scrittori e poeti del primo Romanticismo tedesco.
Boitani sa bene che “l’umanità ha infiniti problemi: l’essere umano singolo ne ha uno solo: la morte”, e altrettanto bene sa che la letteratura nasce “dal desiderio di esorcizzarla, di ficcarci dentro il viso e combatterla, di superarla e vincerla”. E quindi è intorno al morire che può prendere le mosse una prima lezione sulla letteratura d’Occidente. Procederà poi per altre tappe, che corrispondono ad altrettanti modi con cui si tenta di tenere a bada la morte, “per vivere appieno la vita”. Uno di questi è il conoscere.
Come già compresero i primi filosofi greci, “l’acquisto della conoscenza ci occupa al punto che dimentichiamo per breve tempo il nostro destino”. Stupire e lasciarsi stupire sono momenti compresenti nel fare poetico, ne costituiscono la più intima struttura, e dunque conoscere, essere e creare sono intreccio che spesso ha fatto da canovaccio nella storia della nostra letteratura e, tramite ed oltre essa, della nostra civiltà. Ma alla nuda singolarità che getta in prossimità della morte, l’essere umano ama contrapporre la relazione con gli altri e, così, la condivisione di un comune destino è altro antidoto frequentemente adottato. La compassione è pertanto un modo forse “più efficace, più umano, di combattere la morte con la vita”, perché il riconoscimento non è conoscenza astratta, teorica, ma incontro e compenetrazione di vissuti. E infine non possiamo nemmeno scartare l’opzione per secoli preferita dalla maggioranza di donne e uomini abitanti in terra d’Occidente: che cioè dentro il corpo alberghi un’anima immortale, segnacolo e speranza che pure le spoglie mortali in fondo non siano tali, ma che un giorno verrà la resurrezione dei corpi.
L’interprete contemporaneo di opere letterarie del passato non può fare a meno di ricorrere a figure retoriche che sono a noi ancora note ma purtroppo private di significati che possedevano in pieno solo all’interno delle tradizioni latine medievali o ai tempi dei Padri della Chiesa e dei primi esegeti delle Sacre Scritture. Ed ecco così che, ad esempio, “metafora” va presa nel senso usato da Boncompagno da Signa, quale “velo naturale, sotto il quale i segreti di certe cose sono svelati in modo più naturale / e più segreto”, mentre la definizione preferibile di “enigma” è quella fornita da Isidoro di Siviglia: “un puro significato oscuro, adombrato per mezzo di alcune immagini”. Con questi strumenti concettuali si possono intendere figure che dicono una cosa a parole, un’altra con i gesti e ancora un’altra con il loro aspetto, e quindi nascondono la verità e al tempo stesso la indicano, un po’ come l’oracolo di Delfi che non parla, ma solo accenna.
Difficile è, ad esempio, dipanare la complessa matassa dei racconti allegorici di un Chaucer, però, da un lato, si può ricondurre il testo ai linguaggi del tempo in cui fu concepito e scritto, dall’altro, si può ricordare quanto ogni storia sia già “di per sé stessa generatrice di significati senza connessioni intertestuali”. Tutta la letteratura d’Occidente rivela poi, all’occhio attento e filologicamente rispettoso, quanto la Bibbia ne sia stata il codice genetico. Aveva quindi ragione Northrop Frye nell’affermare che “le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando”. Per secoli, Vecchio e Nuovo Testamento sono stati l’immenso lessico e repertorio iconografico, ideologico e letterario cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare.
In epoca medievale e nel primo evo moderno il richiamo alla Bibbia e alla sua selva di immagini e simboli è fortissimo anche quando non è esplicito ma solo latente. Nel cuore della modernità il riferimento si fa più sfumato, diluito, emerge in poeti e romanzieri che non sanno nemmeno di farne uso tanto è in loro interiorizzato, assorbito sin dalla nascita come il latte dal seno materno. La presenza dell’iconografia, del lessico e dell’immaginario biblici è indubbia nei fondatori del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Hobbes.
Inoltre, la stessa matrice biblica o comunque religiosa di figure, miti e archetipi rende la letteratura ad un tempo coltissima e popolarissima, come dimostra la “Divina Commedia” e la lunga tradizione di trasmissione orale delle sue terzine fra i ceti più umili. L’opera dantesca costituisce la sintesi più alta tra la cultura classica greco-romana e quella cristiano-cattolica. Ogni appassionato viaggio nella letteratura occidentale è sempre “un breve cammino attraverso il vivere” piuttosto che un’asettica analisi comparata. Dal confronto serrato e coinvolgente fra testi di epoche e luoghi lontani emerge con evidenza un dato: la trama di simboli, allusioni e rimandi è assai più spessa e intricata nei testi medievali e della prima modernità di quanto non sia nelle composizioni letterarie a noi più vicine. Una siffatta comparazione intertestuale conferma le ragioni di chi cerca tra Sette e Ottocento il perché e il come di una cesura nella storia della letteratura – e dell’intera cultura – europea prima, occidentale poi. E molte, se non tutte, di quelle ragioni stanno nella secolarizzazione della cultura d’élite che a mano a mano ha scavato nella cultura popolare, riducendo spesso gli originari molteplici livelli di lettura ad una superficie piatta e opaca.
La lezione di Boitani, ad esempio, induce a sostenere una tesi molto forte ed accattivante, che sarebbe la seguente: la grande letteratura del dopo cesura, dalla seconda metà dell’Ottocento all’intero Novecento, è sostanzialmente quella che ha saputo recuperare e trattenere la linfa vitale di una matrice costruita pezzo su pezzo lungo il crinale fra l’antichità classica e l’“autunno del Medioevo”. Così Herman Melville che scalpella le rughe nell’anima di un vegliardo marinaio ossessionato da Dio come da una balena il cui nome è “Moby Dick”, così James Joyce che snocciola per filo e per segno le elucubrazioni di un “Ulisse” vecchio e nuovo antieroe, così Thomas S. Eliot alla insperabile cerca di un nuovo Graal nel bel mezzo di una “Terra desolata”. E che dire dell’altra ossessione dell’altro marinaio, altrettanto “ancient”, evocato da Samuel Taylor Coleridge tra le nebbie di un’alba dopo il naufragio. E anche lì parla una specie di spinoziano “Deus sive natura”, simboleggiato da un albatro ucciso che penzola come maledizione al collo del marinaio. La trasgressione della norma divina spalanca un abisso, da cui non si può uscire se non per ammonire chi si crede sicuro sulla terraferma e non sa che “prega bene colui che ama bene / insieme e uomo e uccello e bestia. / Prega meglio colui che ama meglio / Tutte le cose insieme, e grandi e piccole, / perché il Dio che ci ama / fece e ama tutto”.
Da notare che in queste grandi storie c’è sempre il mare, ora protagonista ora sullo sfondo come forza naturale che ritraendosi lascia una terra isterilita e corrotta da cuori d’uomo gonfi di avidità e arroganza. Quel che conta è cantare con gli accordi giusti e dire la vita come un qualsiasi menestrello del Trecento o un cantautore del nostro tempo. Dire la vita di “chi vive in baracca, chi suda il salario, chi ama l’amore e i sogni di gloria, chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria, chi mangia una volta, chi tira al bersaglio…, chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno, …, chi trova scontato, chi come ha trovato… chi ha crisi interiori, chi scava nei cuori, chi legge la mano, chi regna sovrano, …, chi muore al lavoro, …, chi è morto d’invidia o di gelosia, chi ha torto o ragione, chi è nato leone, …, chi reagisce d’istinto, chi ha perso chi ha vinto, … chi tutto sommato…”, per poi rendersi conto che, al di sopra di questo continuo affanno di anime e corpi, di speranze e delusioni, di lotte ed amplessi, “il cielo è sempre più blu”. Lo cantava quasi quarant’anni fa Rino Gaetano, e la citazione non paia blasfema a chi ama la poesia che, secondo una cifra propria della civilizzazione europea ed occidentale (in questo l’una, l’Europa, è premessa all’altro, l’Occidente), dalle Muse scorre alle masse.
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