di Alessandro Campi
Il Pdl ha infine deciso di escludere Nicola Cosentino dalle sue liste in Campania. Una decisione adottata, nel corso di una giornata a dir poco nervosa e convulsa, per banali ma dirimenti ragioni di convenienza elettorale. I numeri dei sondaggi, che per il Cavaliere sono inappellabili quando si tratta di scrutare l’orizzonte politico e valutare il da farsi in vista dell’immancabile vittoria, indicavano chiaramente il rischio di una perdita secca di voti nel caso fossero stati candidati alcuni dei cosiddetti “impresentabili”. Molti simpatizzanti del centrodestra, almeno quelli che hanno preso sul serio l’impegno del segretario Alfano a costruire il “partito degli onesti”, non avrebbero gradito. E si sarebbe inoltre dato un facile argomento polemico agli avversari: specie dopo che il Pd ha provveduto a ripulire le sue liste dai nomi più controversi.
Da qui la scelta, che il Cavaliere ha presentato come umanamente dolorosa, di sacrificare – dopo Dell’Utri, Milanese, Scajola e Papa – anche Cosentino. E di presentarsi agli occhi degli italiani come un partito intenzionato a rinnovare il suo gruppo dirigente e, soprattutto, a non prestare più il fianco ad accuse ed insinuazioni. L’interesse e forse un sussulto di buon senso politico hanno prevalso su una battaglia nel segno del garantismo che l’opinione pubblica – scottata dai troppi episodi di malaffare che hanno avuto per protagonisti uomini politici – questa volta non avrebbe né compreso né premiato alle urne.
Ma se la controversia sulle candidature di personaggi chiacchierati a causa dei loro problemi con la giustizia sembra essersi chiusa (anche se è facile prevedere strascichi polemiche e forse qualche colpo di coda da parte degli esclusi), resta da approfondire la discussione sull’idea di politica e di partito che in questi giorni di scontri e lotte all’ultimo sangue per un posto sicuro in Parlamento è parsa emergere nei diversi partiti e in particolare in quello berlusconiano.
Un’idea che, coerentemente con la logica che sostiene la legge elettorale vigente, si può definire, per cominciare, radicalmente anti-meritocratica. Al di là di pochi e selezionati nomi di “eccellenti”, chiamati a dare lustro alle diverse liste e destinati a non contare nulla nel futuro Parlamento, la gran parte dei candidati sono stati infatti scelti secondo un rigoroso criterio di fedeltà e lealtà, ovvero affidandosi al lavoro di selezione degli apparati interni, che per definizione premiano in senso di appartenenza e l’obbedienza alla linea decisa dal vertice o dal leader.
Ma questo è il meno. Ciò che è emerso osservando le trattative di questi giorni sulle candidature è che nella politica italiana odierna contano – forse più degli stessi partiti – i gruppi organizzati di potere, radicati su base territoriale o tenuti insieme da interessi economici (spesso le due cose coincidono). Gruppi che non corrispondono affatto alle vecchie correnti, nel senso che non esprimono una posizione culturale autonoma e non rappresentano interessi sociali diffusi, ma sono invece comitati d’affari o veri e propri clan, che usano i partiti (e le istituzioni) come strumento per perseguire i propri obiettivi particolari.
Essere scelti come candidati di un partito solo per la propria affidabilità personale, perché si ha un legame diretto e personale con il capo politico o in quanto espressione di una lobby o peggio di una consorteria fa inevitabilmente somigliare la corsa ad entrare in lista – come appunto si è visto – ad una lotta per bande o ad uno scontro tra individui nel quale tutti i colpi sono ammessi. Questo spiega tra l’altro certi toni ricattatori o minacciosi, le frasi allusive e dal significato obliquo, che è capitato di sentire da parte di coloro che – per i servigi resi, per l’importanza degli interessi economici rappresentati, per le quote di potere politico gestite sul territorio o per i segreti custoditi – reclamavano per sé un posto sicuro in lista a pena di ritorsioni o vendette. Un modo di atteggiarsi che sarebbe stato inconcepibile quando le forze politiche avevano un pieno controllo sui propri gruppi dirigenti e selezionavano i propri rappresentanti in funzione di un progetto politico da questi ultimi condiviso.
Rispetto a tutto ciò, che dà il senso dello svilimento etico-funzionale che ha colpito la politica e i suoi attori nel corso degli ultimi anni, appare persino comico l’episodio sul quale ieri hanno indugiato le agenzie di stampa, di Cosentino che – appresa la notizia della sua mancata candidatura – sarebbe addirittura scappato portandosi via le liste con le firme dei candidati campani alla Camera, giusto per fare un dispetto o un danno al Pdl. Comico, ma indicativo di un cattivo costume, di uno stile aggressivo e spregiudicato purtroppo assai radicati nell’Italia politica odierna.
* Articolo apparso su “Il Mattino” (Napoli) del 22 gennaio 2013.