di Alessandro Campi
Le convulsioni che stanno squassando la Lega sono state sin qui interpretate, da molti osservatori, come il segnale di un declino irreversibile per il movimento politico fondato da Bossi circa trent’anni fa.
L’uso disinvolto che i vertici leghisti hanno fatto della loro quota di finanziamento pubblico testimonierebbe infatti l’infondatezza delle parole d’ordine – su tutte le invettive contro “Roma ladrona” – sulle quali gli alfieri della Padania libera e indipendente hanno costruito nel tempo le loro fortune elettorali. Nato come forza d’opposizione radicale alla partitocrazia della Prima Repubblica, animata da una grande tensione ideale e da una cultura di governo all’insegna del rigore, il Carroccio avrebbe dimostrato di essere – al netto delle chiacchiere da comizio – un partito come tutti gli altri: famelico e spregiudicato. Gestito, per di più, come una bottega da una banda di avventurieri mossi solo dal tornaconto e dall’ansia di carriera.
Stando così le cose, il repulisti a colpi di scopa annunciato da Maroni – nuovo leader in pectore della Lega – sarebbe da considerare null’altro che un disperato tentativo per scaricare su un pugno di reprobi, accusati di ogni nefandezza, le colpe di un intero gruppo dirigente e il fallimento di un progetto politico che per decenni si è ambiguamente costruito intorno agli umori, alla volontà e alle idiosincrasie di un capo-padrone e del suo clan. Dopo quel che è accaduto per il Carroccio sarà difficile accreditarsi come forza di rinnovamento o rivendicare uno stile politico ispirato alla probità e al disinteresse personale. Il rischio, già alle prossime elezioni amministrative, è di finire anch’esso travolto, dopo averla lungamente cavalcata, dall’onda dell’antipolitica: resa inarrestabile dagli episodi di corruzione e cattivo costume politico che quotidianamente si leggono sulla cronaca e che ormai non risparmiano alcun partito e nessun angolo del Paese. Nemmeno quel Nord che, in fatto di morale pubblica, la Lega ha sempre orgogliosamente presentato come un’eccezione virtuosa (ma basta il marciume emerso di recente nella sanità lombarda a smentire questa pretesa) e del quale ha ambito a rappresentare gli interessi in modo esclusivo (a conti fatti, senza grandi risultati).
Ma del terremoto in casa leghista forse è possibile dare una diversa interpretazione. Se è vero infatti che l’intero spettro politico-parlamentare si trova coinvolto da mesi in scandali più o meno grandi, dai quali i diretti interessati si difendono sempre invocando complotti immaginari orditi dagli avversari o prendendosela contro la macchina del fango giornalistica, è anche vero che solo nella Lega – una volta scoppiato il bubbone interno – si è proceduto ad una resa dei conti tanto drammatica, brutale e rapida. Che sarà pure, come alcuni sostengono, un’operazione d’immagine dettata dall’istinto di sopravvivenza e condotta con metodi staliniani e approssimativi, ma che almeno ha il pregio della risolutezza a fronte di un problema – la corruzione dilagante, i maneggi di denaro pubblico a fini privati – che nella politica italiana ha ormai assunto dimensioni devastanti. E che in prospettiva – se si pensa, ad esempio, al modo imbarazzato e reticente con cui il Pd ha trattato il caso eclatante di Penati, o più in generale ai tanti politici inquisiti e chiacchierati che continuano ad occupare posti di responsabilità nei rispettivi partiti – per il Carroccio, dato frettolosamente per spacciato, potrebbe persino rivelarsi pagante alle urne.
Disgustati dalle forze politiche d’ogni colore, intenzionati stando ai sondaggi a disertare in massa le urne, gli italiani potrebbero persino apprezzare chi – come appunto i leghisti – non si fa scrupolo, almeno sulla carta, di sacrificare i propri uomini (compreso il leader storico e la sua famiglia) sull’altare del rinnovamento e della pulizia. E a nulla vale sostenere che quella in corso nella Lega è in realtà una guerra di potere tra gruppi rivali per il controllo del partito, alla quale le inchieste della magistratura hanno offerto un pretesto affinché deflagrasse alla luce del sole in modo definitivo. In una fase delicata come l’attuale contano anche le percezioni dell’opinione pubblica. Ciò significa che mentre il Carroccio, forse perché costretto dagli eventi, sembra fare sul serio, cacciando i corrotti dalle sue fila, gli altri partiti – in particolare quelli che attualmente sostengono il governo Monti – paiono cincischiare o prendere tempo, quasi non si rendessero conto del discredito che grava anche su di essi e che in prospettiva potrebbe travolgerli.
Esemplare, in proposito, è l’atteggiamento tenuto da questi ultimi sulla questione – per molti versi dirimente – dei rimborsi elettorali. Ci si aspettava un cambiamento drastico della normativa vigente, non tanto sul piano della trasparenza e dei controlli contabili, quanto sull’ammontare dei finanziamenti – abnorme e senza alcun corrispettivo rispetto alle spese effettivamente sostenute – che ad ogni consultazione finiscono nelle casse dei partiti a causa di una legge a dir poco iniqua. Sarebbe stato un segnale di cambiamento che i cittadini avrebbero apprezzato, ma i veti incrociati e una manifesta miopia politica hanno invece prodotto una proposta di riforma annacquata, che non riduce di un euro gli introiti dallo Stato attualmente previsti, e per di più mal congegnata dal punto di vista tecnico-legislativo. Non solo, ma mentre i leghisti hanno annunciato – con un efficace coup de théâtre, poco importa se improntato alla demagogia – di voler rinunciare alla prossima tranche di finanziamento pubblico, gli altri partiti appaiono ben decisi a tenersi stretti i soldi dei contribuenti, dando così l’impressione di non aver ben compreso il sentimento di riprovazione e fastidio che cova negli italiani – sempre più colpiti dalla crisi economica e perciò sensibilissimi al tema economico – nei loro confronti.
Alle elezioni del 2013 manca un anno e nessuno ancora sa quali partiti o schieramenti si presenteranno all’appuntamento, e con quali programmi. Ma soprattutto nessuno ha capito con quale credibilità o credenziali essi affronteranno una scadenza che, se non interverrà al più presto qualche novità sostanziosa, per molti versi s’annuncia come un pericoloso salto nel vuoto.
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