di Alessandro Campi
In un mondo instabile, nervoso ed esposto alle avventure politicamente più estreme, la stabilità istituzionale, la prudenza come base dell’arte di governo e lo spirito di moderazione sembrano essere divenute merci tanto preziose quanto rare. Se negli Stati Uniti, faro del mondo occidentale e guida simbolica del mondo, ha vinto Trump, con tutte le incognite e le paure che la sua permanenza alla Casa Bianca sta diffondendo su scala globale, almeno in Europa ci vorrebbe qualcuno in grado di bilanciarlo e di frenarne le pulsioni.
Quel qualcuno, a guardarsi intorno, è una donna, è tedesca e si chiama Angela Merkel: “l’ultimo difensore dei valori umanisti dell’Occidente”, come l’ha battezzata – con un pizzico di esagerazione – il “New York Times” e come sembra averla benedetta lo stesso Obama nell’ultima sua visita in Europa, allorché è parso affidarle il compito di salvare quel po’ di saggezza e fermezza sui princìpi fondanti della convivenza senza i quali le democrazie occidentali, assalite dai populismi e dalla demagogia dei nuovi meneurs de foules, rischiano di implodere.
La Merkel sembra aver preso sul serio questo compito e ha deciso, sembrerebbe, di candidarsi per un quarto mandato alla guida diretta della Germania. Carica che comporterà la guida indiretta dell’Europa e, a questo punto, quella simbolica del mondo che un tempo si definiva libero, aperto e tollerante. Se dovesse riuscire nel suo obiettivo (ma diremo che non sarà facile, per quanto auspicabile lo si voglia considerare), supererebbe la permanenza al potere (durata sedici anni) di Helmut Kohl. Ciò significherebbe l’alternarsi alla Cancelleria, tra il 1982 e il 2021, di tre sole personalità: Kohl (1982-1998), Gerhard Schröder (1998-2005) e appunto la Merkel (in carica ininterrottamente dal 2005). Un esempio di stabilità e di continuità nell’azione di governo che non ha eguali nelle grandi democrazie occidentali.
Nello stesso periodo, gli Stati Uniti hanno avuto sei presidenti (quattro dei quali con un doppio mandato). In Giappone c’è stata una successione di quindici primi ministri. La Spagna, ha visto alternarsi quattro capi di governo (col socialista Gonzales rimasto alla Moncloa per 14 anni). La Gran Bretagna, sei primi ministri. Mentre la Francia, nello stesso periodo, ha avuto quattro presidenti della Repubblica e quattordici capi di governo. Quanto all’Italia… beh, lasciamo stare: se Wikipedia non m’inganna, sono stati venti i presidenti del Consiglio, da Spadolini a Renzi.
La stabilità tedesca è notoriamente figlia di un sistema politico-elettorale che tagliando le ali estreme (col meccanismo della soglia di sbarramento) favorisce un tendenziale bipolarismo e di una cultura politica fondata sul ruolo preminente dei grandi partiti popolari e sul riconoscimento dell’avversario come competitore legittimo. Nella storia istituzionale tedesca non sono mai stati necessari correttivi maggioritari per dare solidità ai governi in carica. Quando in Parlamento è mancata una maggioranza politicamente (e ideologicamente) omogenea, a causa del sistema sostanzialmente proporzionale col quale si è sempre votato a partire dal 1949, si è ricorsi senza alcun problema alla formula – sperimentata per la prima volta nel 1966 e attualmente adottata anche dalla Merkel – della “grande coalizione” tra popolari e socialdemocratici. È sempre esistita in Germania una “terza forza” – i liberali dell’Fpd – che però non ha mai avuto, come accade oggi nella maggioranza dei Paesi europei, una connotazione anti-sistema o antagonistica: tanto che ha potuto tranquillamente partecipare ai diversi governi in coalizione sia con la Csu/Cdu che con la Spd.
Con la sua ricandidatura, ciò che la Merkel vuole salvaguardare, mentre ovunque in Europa cresce il ruolo delle forze di opposizione radicale e va decrescendo il peso dei partiti storici d’ispirazione cristiana e socialista, è esattamente questa particolare eredità, difficile da ricopiare in altri contesti, ma che anche in Germania – ecco il punto critico che getta un’ombra sul futuro del Kanzlerin – comincia a presentare qualche difficoltà.
Nessuno, ad esempio, poteva prevedere sino a pochi anni fa che anche in Germania – cuore opulento dell’Europa, dove gli effetti della crisi economica praticamente non sono mai arrivati – si insediasse un partito come quello guidato da Frauke Petry: euroscettico, ostile all’immigrazione, nazionalista e molto conservatore sul piano dei diritti civili. Come gli altri omologhi europei, anche i populisti di Alternative für Deutschland traggono molto del loro consenso dalla denuncia del consociativismo tra i grandi partiti al potere, accusati di gestire il potere alle spalle dei cittadini. Se un tempo la “grande coalizione” era la soluzione politico-parlamentare in grado di assicurare, in presenza di un impasse elettorale, la stabilità del sistema e la difesa degli interessi delle grandi masse popolari, oggi si tende a vederla come una pratica spartitoria che tende ad escludere il popolo dalla gestione degli affari pubblici. Difenderla, proporla o praticarla rischia ormai di alimentare la propaganda dei populisti.
Una difficoltà alla quale bisogna aggiungere quella derivante dalla crisi progettuale e ideale che sembra aver colpito, un po’ in tutta Europa, le due grandi famiglie del popolarismo cristiano-liberale e del socialismo riformista. In Germania sono due realtà organizzative ancora molto solide, ma il trend storico a livello continentale sembra indicare l’inaridirsi progressivo di queste tradizioni, frutto di fratture socio-culturali che rimandano alla seconda metà dell’Ottocento (la divisione Chiesa/mondo laico, la divisione capitale/lavoro) e che probabilmente non riflettono più i contrasti e i conflitti tipici delle società contemporanee.
Un altro potenziale problema è rappresentato proprio dalla lunga permanenza della Merkel alla Cancelleria. Se ci sono elettori che giudicano positivamente, come garanzia di un governo efficiente, questa continuità al comando, ce ne sono altri che sempre più tendono a valutare negativamente il fatto che una stessa persona occupi le leve del comando per un tempo troppo lungo. Le democrazie contemporanee sono ormai pesantemente condizionate da umori collettivi instabili e da una forma di frenesia politica che tende a privilegiare il cambiamento, quale che sia, su qualunque forma di stabilità. C’è un tasso molto alto di volatilità politica degli elettorati, acuito da forme di risentimento sociale, di paura e rabbia che non erano mai state così forti nei Paesi ad alto tasso di sviluppo economico. Il che spiega anche perché i sondaggi non riescano quasi più a misurare gli orientamenti dei cittadini in modo realistico e perché le leadership politiche si esauriscano più in fretta di quanto non accadesse in passato.
Ciò non vuol dire che quello della Merkel sia un tentativo destinato a fallire (come accadde ad esempio a Kohl nel 1998, giunto logorato e senza grande appeal allo scontro con Schröder proprio dalla sua troppo lunga permanenza al potere). Vuol dire che la sua sarà una partita difficile. Dalla sua sembra avere i primi sondaggi, per quel che ormai valgono, ma contro di lei agiscono i dubbi sulla ricandidatura che vengono persino dal suo stesso partito. Ma soprattutto agisce un clima d’opinione che ormai associa il potere al privilegio personale più che al servizio a beneficio dei cittadini e che troppo facilmente sacrifica la difesa razionale dei propri interessi al gusto di vedere il potente di turno cadere con la faccia nella polvere. La Merkel vuole riproporsi come baluardo alla dilagante demagogia populista, come statista mossa dal senso di responsabilità e come campione di una democrazia liberale, pragmatica, inclusiva e dialogante. Che Dio l’aiuti.
Lascia un commento