di Loris Guzzetti
Volgendo particolare attenzione alla cronaca parlamentare odierna, inevitabile è constatare la presenza di un astuto ricorso alla cosiddetta “questione di fiducia” da parte dei governi italiani con una frequenza tale, da essere oramai percepita quasi come una effettiva costante della procedura legislativa nazionale. È possibile cioè denunciare un persistente, inappropriato uso di questo specifico strumento, quasi potesse essere annoverato in un poco ragionevole elenco delle libertà tout court.
Già presente nell’Italia dello Statuto Albertino, la sua esistenza è oggi disciplinata dai regolamenti interni di Camera e Senato, rispettivamente negli articoli 116 e 161. Si è quindi dinanzi ad uno strumento non previsto dalla Carta costituzionale repubblicana e per il quale, proprio all’interno delle norme prima citate, mancano dettagli meglio esplicativi circa tipologia e carattere che dovrebbero accompagnare un simile istituto. Tuttavia, ciò non legittima la possibilità di ricorrere al voto di fiducia sui provvedimenti dell’esecutivo in qualsivoglia maniera o momento.
Secondo alcune recenti rilevazioni, il governo presieduto da Silvio Berlusconi, in carica dal 2008 fino al turbolente autunno del 2011, ha presentato al Parlamento ben 53 voti di fiducia, quasi uno ogni mese. Fa poi seguito la parentesi tecnica del bocconiano Mario Monti, con addirittura una media mensile di 3 voti di fiducia, per arrivare infine all’attuale governo di Matteo Renzi che sembra addirittura conquistare la quota record, con circa 3,2 richieste di fiducia presentate alle due Camere in questo appena scoccato primo anno di governo.
Ciò che pare essere totalmente ignorato è che, alla luce di queste ed altre stime, il valore politico di questo vero e proprio abuso della fiducia parlamentare, cessa di caratterizzarsi per quel carattere positivo e nobile di garanzia dell’azione governativa, sostituendosi con una forma negativa e sprezzante, sfociante addirittura in atteggiamenti di arroganza e superbia del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo.
Vincolare frequentemente i provvedimenti di Palazzo Chigi, ponendo su di essi la questione di fiducia appunto, porta a inscenare un deciso e imbarazzante ricatto politico nei confronti dell’assemblea parlamentare, poiché dal suo voto in merito a quello stesso provvedimento dipenderà la vita dell’intero esecutivo, nonché del Parlamento stesso. In un certo senso, quindi, le camere di rappresentanza si sentono obbligate a esprimere un giudizio di approvazione, decentrando così l’attenzione: anziché esprimere il proprio parere sulla eventuale bontà del decreto e della norma in sé, ci si limita a confermare (a prescindere dal contenuto) il sostegno compatto al governo in carica, onde evitare spiacevoli ripercussioni di sistema ed equilibrio politico.
Questo è, inoltre, un atteggiamento che contrasta fortemente con la logica e il principio della Repubblica parlamentare. La centralità del corpo rappresentativo per eccellenza si trova, difatti, minacciata da un prevalere di sollecitazioni ed imposizioni che suonano come degli ultimatum da parte dell’organo esecutivo, il quale finisce per sostituirsi, in un certo senso, al legittimo destinatario del potere legislativo, che è il Parlamento. Scenario del resto confermato dalla elevata quantità di leggi nate attraverso la mera conversione di decreti legge o di leggi delega, ovvero forme riconosciute come prerogative esclusive del governo.
Le conseguenze di un insistente ricorso allo strumento della fiducia sono, di conseguenza, decisamente gravi, soprattutto per il valore e il significato politico (in questo modo storpiato) che in sé racchiudono. Un simile istituto dovrebbe in realtà essere contraddistinto da un carattere del tutto eccezionale, speciale e straordinario, così da intenderne e sottolinearne un uso modesto, se non addirittura raro. Non si tratta di rimproverare una banale questione di forma o una sempliciotta prassi procedurale nei lavori interni ai due rami del Parlamento.
Piuttosto, c’è la consapevolezza di un attacco ai principi base della rappresentanza e della sovranità politica che varrebbe la pena interrompere, ripristinando completamente una saggia separazione dei poteri fra Governo e Parlamento o, più semplicemente, recuperando un nobile e solido rispetto delle singole prerogative affermate.
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