di Antonio Campati

Volendo individuare un classico fil rouge in grado di collegare molte ricerche scientifiche e un numero sempre crescente di editoriali giornalistici, non si avrebbe nessuna difficoltà nel rintracciarlo in una persistente critica al governo rappresentativo. Se si vogliono abbattere le numerose barriere retoriche che lo circondano, il problema del dover garantire nelle democrazie contemporanee l’esercizio della sovranità popolare resta il nucleo centrale, o meglio, la matassa da sbrogliare per tentare un’analisi che non dimentichi al contempo la superficie “ideale” e quella “materiale”. Certo, non separare queste due dimensioni può portare alla creazione di ulteriori punti di discontinuità, ma, a volte, se si analizza un preciso carattere del sistema politico e se ne trascura il contesto nel quale esso è collocato, si corre il rischio di compiere evidenti digressioni rispetto agli obiettivi centrali della ricerca.

Un pericolo del genere può essere ancora più facile da correre quando ci si addentra nel campo che definisce il rapporto tra istituzioni e sviluppo delle idee politiche. Infatti, in un simile contesto, i problemi connessi al governo rappresentativo e alla più generica rappresentanza politica assumono anche valore storico e non possono essere trattati trascurando una simile evidenza.

Rifuggendo da tutti questi rischi, ma ponendosi appieno nel quadro teorico abbozzato, si colloca il recente lavoro di Rosanna Marsala, La rappresentanza politica in Philippe Buchez (Rubbettino, 2012, pp. 190). Come sottolinea l’Autrice nella premessa al suo lavoro, attorno al concetto di rappresentanza politica «si sono articolate la questione del funzionamento degli istituti parlamentari e la problematica dei sistemi elettorali» e quindi «una riflessione sulla democrazia non può prescindere dalla necessità di approfondire il problema della rappresentanza politica» (p. 5). Così, tra i pensatori che nel corso del XIX secolo hanno contribuito alla definizione del concetto di rappresentanza politica con una particolare attenzione al nesso pensiero politico-istituzioni troviamo sicuramente un eclettico medico, filosofo e storico come Philippe Buchez (1796-1865).

Il primo dei quattro capitoli che compongono il libro è dedicato a un inquadramento generale del «problema della rappresentanza tra XVIII e XIX secolo» che si conclude con un interessante riferimento al Dictionnaire Politique pubblicato a Parigi nel 1842 da Duclerc e Pagnerre destinato, secondo la descrizione di Marsala, «a tutti coloro che, per scelta di professione, per devozione alla cosa pubblica, per posizione sociale, hanno il bisogno o il dovere di acquisire le nozioni elementari e generali della politica» (p. 48). Il richiamo è importante perché dalle voci contenute nel dizionario – in particolare quelle riferite a représentants, représentatif e Assemblée – si evince con chiarezza «la tendenza di un’epoca che abbandona l’idea di una democrazia diretta alla maniera rousseauiana, e si avvia al pieno riconoscimento della validità della democrazia rappresentativa» (p. 51).

Il percorso personale e politico di Buchez non è affatto lineare e forse, proprio per una simile varietà di approcci, diverse sue conclusioni appaiono piuttosto lontane dai molti progetti utopici che, anche nell’epoca durante la quale egli opera, non mancavano di essere elaborati. Anzi, a volte, si rintracciano elementi di originalità che, nel corso dei decenni, sono stati diversamente rielaborati da altri autori, ma che muovono dalle stesse argomentazioni di fondo. Per esempio, nel secondo capitolo dedicato alle riflessioni di Buchez sui fondamenti del sistema democratico, si sottolinea come, per elaborare un progetto di società e di Stato, occorra «analizzare quei principi costitutivi che rappresentano e realizzano la tendenza verso lo scopo»; ossia, secondo il pensatore francese, «le condizioni pratiche o il sistema d’attività appropriato a questo scopo generano l’unità di direzione d’azione, e in seguito la Costituzione del governo che l’esperienza reputa il migliore» (p. 65).

Non mancano, quindi, elementi teorici su cui soffermarsi (come, per fare un altro esempio, quelli dedicati alla sovranità che, seppur accogliendo in buona parte la teoria di Jean Bodin, ne puntualizzano alcuni passaggi), ma è nel terzo capitolo che sono raccolte alcune proposte concrete sulla rappresentanza politica. E quest’ultima, riprendendo un saggio di Eugenio Guccione, è ricordata da Marsala come l’unico «criterio di valutazione», per Buchez, delle diverse forme di governo, «nel senso che la loro bontà e la loro funzionalità dipendono dal grado di rappresentatività esistente in esse, espresso in quantità e in qualità, e, quindi dall’intensità e dal tipo di partecipazione dei cittadini all’amministrazione della cosa pubblica» (p. 96). Il primo esempio concreto di rappresentanza viene individuato nel processo di istituzionalizzazione, quindi di organizzazione interna che si dà la Chiesa cattolica intorno al IV e V secolo quando i vescovi a capo di una civitas venivano eletti, su proposta del clero, dal popolo della diocesi e si riunivano di frequente in assemblee durante le quali si sedevano «non a titolo personale, ma come rappresentanti di una Chiesa» (p. 106).

Le forme nelle quali si esprime la rappresentanza politica sono, da allora, molto numerose. Ma il punto che Marsala desidera sottolineare del discorso di Buchez è relativo al ruolo delle elezioni come canale di collegamento diretto fra governati e governanti, dove i secondi non sono chiamati a essere rappresentanti dei singoli elettori (e delle loro specifiche peculiarità), ma di ciò per cui essi si sentono cittadini e parte di una nazione (p. 121). A questo proposito, appare suggestiva l’ipotesi avanzata da Buchez sul «suffragio universale a due gradi», uno strumento che vuole correggere i difetti del voto universale diretto e consiste nel «presentare agli elettori liste di candidati, preparate non dal governo né da comitati politici, ma da una commissione eletta dagli stessi cittadini in piccole circoscrizioni territoriali. I delegati, o comitato di garanti, avranno tutto il tempo necessario per riunirsi, deliberare e scegliere i candidati. La lista sarà pubblica (…). Gli elettori, in un secondo turno, avranno la possibilità di scegliere i candidati all’interno della lista» (p, 127). Infatti, l’elezione universale diretta, lungi dal produrre il miglior risultato, «indebolisce la sovranità», mentre con l’elezione a due gradi quest’ultima «ne risulta accresciuta perché tutto è fatto con coscienza e misura» (p. 129).

In conclusione, l’ultimo capitolo puntualizza i passaggi fondamentali – in particolare la «soluzione etica della questione sociale» – che hanno determinato il distacco definitivo di Buchez dalle correnti materialiste alle quali aveva aderito da giovane e l’ingresso nell’ambito del cattolicesimo sociale, in quel «movimento democratico cristiano che afferma l’inscindibilità fra democrazia e cristianesimo» (p. 144). Infatti Marsala non dimentica di evidenziare, lungo tutto il libro, l’originaria adesione di Buchez alle idee di Saint-Simon che, anche quando se ne allontana, non vengono mai rinnegate; piuttosto il pensatore francese «nella sintesi tra la nuova fede e le sue antiche idee sociali e politiche ritiene di poter portare a compimento l’opera riformatrice della società indicata dal maestro» (p. 58). In pratica, una prospettiva che unisce elementi all’apparenza contrastanti, tanto che, letta con le lenti del presente, può apparire in alcuni passaggi niente più che l’insieme di buoni (ma irrealizzabili) auspici. E però, in realtà, riporta delle utili analisi che proprio per la loro genesi eterogenea mettono chiaramente in luce i lineamenti del pensiero di Philippe Buchez che, nonostante l’atteggiamento di indifferenza con il quale vennero accolti in diversi contesti, influenzarono le idee di non pochi pensatori dell’epoca, nella ferma convinzione «della bontà del governo rappresentativo, l’unico che consente al cittadino di partecipare al sistema di controllo e di limitazione del potere» (p. 179).

 

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