di Alessandro Campi
Ci risiamo. Il perdente non ci sta a perdere. Contesta i risultati, chiede verifiche e presenta ricorsi. Minaccia prima di rovesciare il banco, poi di correre da solo. Stiamo ovviamente parlando delle primarie del Partito democratico: un po’ commedia degli equivoci (e degli inganni), un po’ psicodramma collettivo permanente. È un copione al quale ci siamo abituati, visti i molti precedenti, e che raramente vede lo sconfitto di turno mettersi cavallerescamente a disposizione del vincitore, come nelle sane democrazie che noi italiani proviamo maldestramente ad imitare, ma semmai lo vede animato da insani propositi di risalva. Che non sono soltanto autolesionisti, poco importerebbe, ma spesso finiscono per essere dannosi e pregiudizievoli per la propria parte politica. Un atteggiamento che in gergo si dice ormai “tafazziano” e che per la sinistra italiana sembra essere diventata una sorta di perversa vocazione.
Dietro questi atteggiamenti, non privi di un risvolto infantile spacciato per sdegno morale e ansia giustizia, ci sono ovviamente i personalismi. Più che la democrazia ferita, c’è l’offesa all’orgoglio e all’ego. Parliamo, nel caso di Bassolino, di un politico di lungo e prestigioso corso, di una forte personalità, che ancora oggi – come hanno dimostrato proprio queste primarie – gode di un indiscutibile, ancorché insufficiente, credito popolare. Ma che non si vuole rassegnare, proprio per questo suo passato, ad un ruolo marginale o di secondo piano, che non sembra voler accettare la logica di un radicale rinnovamento che la politica italiana sembra essersi data, a partire proprio dal Pd renziano, per provare a recuperare agli occhi dei cittadini un minino di credibilità e fiducia. Non che il nuovismo sia una ricetta politica vincente, ma nemmeno lo è l’eterno ritorno dell’eguale, del già visto e sperimentato.
Ma dietro le impuntature bassoliniane ci sono anche e con tutta evidenza le fibrillazioni – un misto di rancore ideologico e senso di rivincita, di prestigio ferito e di testardaggine politica – della sinistra post- comunista d’osservanza in senso lato dalemiana e bersaniana. Che ha preso i risultati delle primarie romane e napoletane – non esaltanti quanto a partecipazione nel primo caso, fonte di malumori e accuse di scorrettezza nel secondo – come pretesto per riproporre la propria guerra di logoramento nei confronti dell’odiato segretario fiorentino (la maiuscola per una simile qualifica si riserva notoriamente al solo Machiavelli).
Una guerra sin qui, va detto, velleitaria e parecchio inconcludente, che ha prodotto sì una scissione parlamentare, peraltro modesta e tutta da valutare elettoralmente, ma che per nulla ha arrestato l’azione del governo. Una guerra che non si è ancora capito quanto scaldi realmente i cuori della base militante e soprattutto dell’elettorato – vecchio e nuovo – della sinistra. E quanto invece sia una forma di riposizionamento di quadri, dirigenti e uomini d’apparato che semplicemente temono per il proprio futuro avendo capito che nel nuovo corso renziano per loro resta in effetti poco spazio.
Bassolino un po’ è dunque narciso e incline a considerarsi indispensabile e immortale, come tutti quelli che grosso modo hanno alle spalle una storia importante come la sua. Un po’ pensa di inserirsi – non si capisce se di sua iniziativa o perché sollecitato a ciò – nel gioco di nervi che si è aperto nuovamente tra i vertici del Pd e la sua minoranza interna. Il problema è dove però questo gioco, se giocato sino in fondo, possa condurre. Rigettato ieri il ricorso che aveva presentato alla Commissione di garanzia del Pd contro l’esito delle primarie (ma già è stato annunciato un ricorso che s’immagina senza esito), ed esclusa la possibilità che un politico navigato come lui voglia rimettere alla magistratura ordinaria una controversia di partito, non sembra restare che la possibilità di candidarsi in autonomia. Specie se una decisione analoga verrà assunta anche a Roma, da quella parte di sinistra interna ed esterna al Pd che a sua volta non ha digerito la vittoria alle primarie del doppiamente colpevole Giachetti, essendo quest’ultimo, come è noto, renzianissimo e per sovrapprezzo anche radicale.
Certo, Bassolino dirà di candidarsi, se mai lo farà, per il bene di Napoli. E magari ne è anche convinto. Ma nei fatti e sostanzialmente si candiderà contro Valeria Valente e il Pd. Che con lui in campo certamente perderebbero ogni residua possibilità di andare al ballottaggio.
Tutto ciò, sempre che si stia parlando di qualcosa di realistico, sarebbe politicamente saggio, avrebbe un qualche senso razionale? Bassolino dovrebbe ben ricordare come si creò il clima di opinione che consegnò Napoli alla demagogia antipolitica abilmente capitalizzata da De Magistris. Tendenza nel frattempo cresciuta e irrobustitasi con la comparsa sulla scena dei grillini. L’idea non irragionevole del Pd – per quello che si è capito dal confronto politico che ha accompagnato le primarie – era ed è quella di provare a fronteggiare, parlando il linguaggio serio della politica, quest’ondata populista, ma certo difficilmente potrà farlo se mai dovesse presentarsi diviso alle urne e lacerato da dure polemiche interne. Con Bassolino che in quel caso correrebbe seriamente il rischio di essere associato suo malgrado (e ben al di là delle sue effettive responsabilità) ad un doppio naufragio: quello già sperimentato dalla sinistra napoletana e campana nel biennio infausto 2010-2011 e quello che potrebbe verificarsi per il Pd nella odierna corsa verso Palazzo San Giacomo. Questo sì che sarebbe per il Nostro un brutto finale di carriera!
* Editoriale apparso sul “Mattino” (Napoli) del 10 marzo 2016.
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