di Damiano Palano

Nonostante sia stabilmente entrata anche nel lessico politologico, l’espressione “Seconda Repubblica” rimane solo una formula giornalistica, per molti versi persino fuorviante. In effetti, la ‘transizione’ che si avviò fra il 1993 e il 1994 non innescò un rilevante cambiamento della Carta costituzionale, ma si ridusse al (parziale) mutamento degli attori della politica nazionale e del quadro ideologico di riferimento dei principali partiti. La ‘transizione’ si tradusse cioè nel passaggio da un «pluralismo polarizzato», come l’aveva definito Giovanni Sartori, a un «bipolarismo» che si sarebbe rivelato in seguito piuttosto frammentato, segnato da una certa instabilità e paradossalmente piuttosto ‘polarizzato’. Ovviamente si trattava di un cambiamento che doveva produrre conseguenze rilevanti. Ma è significativo che l’unica reale trasformazione – o quantomeno quella che più doveva incidere sull’effettiva dinamica del confronto politico – non coinvolgesse tanto l’architettura delineata nella Carta del 1948, quanto la legislazione elettorale, e cioè il sistema elettorale proporzionale che aveva contrassegnato la prima stagione repubblicana. Così, se qualsiasi seria ricostruzione storica del tramonto della ‘Prima Repubblica’ non potrebbe certo tralasciare di considerare le implicazioni della fine della Guerra fredda o il ruolo rivestito dalla magistratura nell’uscita di scena della classe politica del vecchio «pentapartito», difficilmente si potrebbe contestare il peso che, nel dar forma alla ‘transizione’, ebbe proprio la legge Mattarella, adottata sulla spinta propulsiva dei referendum popolare dei primi anni Novanta. E forse proprio per questo rimane scritto nel destino della “Seconda Repubblica” che il suo travagliato percorso debba essere costantemente accompagnato da un’inesauribile discussione sulla necessità di una ‘riforma elettorale’, oltre che, ovviamente, sul metodo che potrebbe consentire all’Italia di diventare finalmente un Paese ‘normale’.

Comprensibilmente il dibattito non poteva non riaprirsi dopo le elezioni del 24-25 febbraio, coinvolgendo la legge Calderoli, diventata l’oggetto di un dileggio pressoché trasversale, eppure capace di resistere – nei suoi ormai otto anni di vita – a mutamenti di maggioranza, crisi di governo ed emergenze nazionali. Nella contesa si cala ora anche Luciano Canfora, con un vibrante pamphlet il cui titolo – La trappola. Il vero volto del maggioritario (Sellerio, pp. 98, euro 10.000) – non lascia molti dubbi sull’opinione nutrita dall’antichista verso quello che nel gergo politico e giornalistico è ormai diventato il Porcellum. Il risultato delle consultazioni di febbraio – ossia l’esorbitante premio di maggioranza assegnato alla Camera alla coalizione di centro-sinistra, pur a fronte di un risultato di sostanziale parità in termini di voti popolari – viene infatti definito da Canfora come «il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana», un risultato «più scandaloso persino del risultato ottenuto dal ‘listone’ mussoliniano (e associati), grazie alla legge Acerbo, nelle elezioni politiche dell’aprile 1924» (p. 9). In questo senso, Canfora si rivolge certo contro la logica di un sistema che distorce l’effettiva volontà degli elettori, creando artificialmente una maggioranza inesistente nelle urne. Ma il vero obiettivo della sua polemica non è tanto il sistema elettorale, quanto la classe politica del centro-sinistra, e cioè il gruppo dirigente della forza che ha beneficiato del premio di maggioranza previsto dalla legge Calderoli, e che paradossalmente «discende da quei partiti (Psi e Pci) che a suo tempo avevano condotto la più fiera e bene argomentata battaglia contro il feticcio del ‘premio di maggioranza’: contro quella che è passata alla storia come la ‘legge truffa’» (p. 10). Il pamphlet di Canfora può in effetti essere letto, oltre che come un manifesto polemico contro il sistema maggioritario, come l’ennesimo episodio di una battaglia contro la «metamorfosi» culturale della sinistra italiana (e del suo ceto dirigente), cui viene imputata la responsabilità di essere passata, «in pochi anni, dalla difesa del suffragio universale al principio-base delle corse dei cavalli» (p. 10). E, per quanto si tratti di una battaglia che a molti può apparire ricoperta di uno spesso strato di nostalgia, la cura filologica con cui viene condotta la rende comunque meritevole di un’attenta lettura.

Il percorso si snoda fra alcune tappe cruciali della storia elettorale italiana, ma prende avvio da un fatto destinato ad avere ripercussioni notevoli. Riprendendo una ricostruzione svolta da Calogero Salomone, Canfora sostiene infatti che l’articolo 75 della Carta costituzionale, nel quale vengono definite le materie che possono essere oggetto di referendum, sia viziato a causa di una «omissione», attribuibile principalmente a Meuccio Ruini. In sostanza, nella discussione condotta all’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947, l’Aula emendò gli articoli 72 e 73 del testo predisposto della Commissione dei Settantacinque, inserendo anche le leggi elettorali fra le materie escluse da consultazioni referendarie. Quando gli articoli 72 e 73 vennero però accorpati ad opera del Comitato dei Diciotto (rappresentante in Aula della Commissione dei Settancinque), la parola «elettorali» scomparve, o meglio fu «tacitamente omessa» (p. 15). Tanto che, come scrive Canfora riportando il giudizio formulato dallo stesso Ruini alcuni dopo, «il testo dell’articolo 75 risulta viziato a causa di quella omissione» (p. 17).

Il vulnus riportato alla luce da Canfora finisce naturalmente col gettare un velo di sospetto sull’intera vicenda della “Seconda Repubblica”, che, in qualche modo, sarebbe nata quasi mezzo secolo dopo proprio per effetto di quella «omissione», e che dunque risulterebbe addirittura in contrasto con lo spirito della Carta. Ma l’attenzione dello storico si concentra soprattutto sulla cosiddetta «legge truffa» e sul dibattito che in Parlamento ne precedette l’approvazione. Più che i risvolti politici del confronto, a Canfora interessano però quei rilievi che allora misero in discussione la costituzionalità della legge, proprio in quanto essa andava a violare il principio del voto libero e uguale fissato nella Carta, e dunque il principio di proporzionalità verso cui erano andate le preferenze dei costituenti. E, in questo senso, è comprensibile che nel pamphlet venga ripubblicato l’intervento contro il disegno di legge Scelba pronunciato da Palmiro Togliatti nel dicembre 1952. L’approfondita argomentazione di Togliatti – che occupa circa un terzo del volume – ricorreva alle posizioni di pilastri della storia italiana e della dottrina giuridica, come Gian Domenico Romagnosi, Cavour, Sidney Sonnino, Ruggero Bonghi, Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando. La tesi principale del segretario del Pci era che la nuova legge modificasse l’ordinamento costituzionale e lo violasse in alcuni punti cruciali. In un passaggio importante del discorso affermava infatti: «In qual modo e perché questa legge è sovvertitrice dell’ordinamento costituzionale? Essa lo è perché nella nostra Costituzione vi è una determinata definizione del diritto di voto e la Costituzione stessa determina il modo dell’esercizio di questo diritto. Questa definizione del diritto di voto, e la determinazione del modo dell’esercizio di questo diritto non sono cosa a sé, atto di contingenza politica, ma conseguenza diretta del modo come è definito, nella Costituzione repubblicana, l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ecco, quindi, il profilo esatto della mia eccezione di costituzionalità. Qui è violato l’articolo 56, che prevede il modo come viene eletta la Camera dei deputati ed è violato in particolare in relazione all’articolo 48, che sancisce l’eguaglianza del voto dei cittadini. Dall’esame di questi articoli e della violazione dei principi che essi asseriscono risalgo agli articoli 1, 3 e 49 della Costituzioni repubblicana, che rispettivamente definiscono e sanciscono la natura giuridica e politica del nostro Stato, l’eguaglianza politica dei cittadini e infine la funzione di determinati organismi politici – i partiti – di cui la Costituzione stessa parla all’articolo 48» (p. 48).

Se certo nel discorso di Togliatti non possono sfuggire alcune forzature argomentative, lo stile, la struttura e i riferimenti dell’intervento dell’allora segretario del Pci non possono non confermare – una volta di più – l’impressione della distanza che separa la classe politica della prima stagione repubblicana da quella che occupa oggi il proscenio della “Seconda Repubblica”. Al di là di questo, la decisione di ripubblicare quella che, non senza enfasi, viene definita come «la lezione di diritto costituzionale di Palmiro Togliatti», può forse indurre qualche lettore a liquidare l’intera discussione condotta da Canfora. In realtà, l’inserimento della dissertazione togliattiana nel pamplhet non ha solo un valore documentario, un valore nei confronti del quale la passione filologica di Canfora non può peraltro risultare indifferente. La «lezione» del Migliore è infatti destinata ad acquistare un peso politico, nella misura in cui viene indirizzata proprio contro quei leader politici che sono – più o meno direttamente – eredi della tradizione politica del Partito Comunista Italiano. Gli autentici bersagli della polemica di Canfora sono d’altronde proprio i vertici della sinistra italiana, cui viene imputata la responsabilità di avere abbandonato bruscamente, fra il 1989 e il 1991, il tradizionale sostegno al sistema proporzionale, sposando la causa del maggioritario, per un articolato insieme di cause. «Cambio di cultura, persuasione di poter ‘vincere al tavolo da gioco’ la battaglia elettorale, sfiducia forse nella propria capacità di conquistare consensi e illusione che nella lotta politica esistano scorciatoie: tutto questo determinò il passaggio alla ‘cultura del maggioritario’ proprio al vertice della forza politica che più aveva, e così a lungo, presidiato il principio fondamentale della democrazia: ‘un uomo/un voto’» (pp. 65-66).

In altre parole, il vero motivo che alimenta il volumetto di Canfora è proprio una critica spietata alla convinzione, coltivata dai dirigenti del Pci/Pds/Pd, che gli ostacoli sulla strada verso il potere potessero finalmente essere aggirati, più che veramente superati, da una sorta di ‘scorciatoia’, e cioè da un sistema elettorale che – semplificando il gioco politico, ma distorcendo anche il voto degli cittadini – consentisse di conquistare la maggioranza in Parlamento, anche senza godere di una reale maggioranza nel Paese. La responsabilità, oltre che agli umori dell’elettorato, è dunque addossata soprattutto ai gruppi dirigenti del Pci, usciti dal travaglio dell’Ottantanove: «non tolleravano più di restare ai margini del governo, in posizione ‘morganatica’ rispetto ai governanti eterni includenti ormai stabilmente anche i socialisti (dal 1963). L’invenzione dell’‘arco costituzionale’ non soddisfaceva più; il potere locale (regioni etc.) non bastava; era ormai nato un ceto governativo (amministratori pragmatici e competenti ma del tutto indifferenti agli schieramenti ‘di principio’) al quale sembrava un assurdo intollerabile non poter governare in prima persona. Caduta l’Urss non esisteva nemmeno più il cosiddetto ‘fattore K’: dunque bisognava tentare, magari proprio con la scorciatoia del maggioritario, di ‘andare al governo’» (pp. 76-77).

Dopo il 24-25 febbraio 2013, le speranze riposte nelle virtù del premio di maggioranza, già messe in seria crisi delle precedenti performance della legge Calderoli, sono state definitivamente dissolte, anche se la capacità di conservare le rendite di posizione del duopolio Pd/Pdl rende piuttosto incerta l’eventualità di una riforma elettorale. Ma, in questa prospettiva, Canfora si esprime nettamente a favore del ritorno al proporzionale, spingendosi al massimo a concedere l’introduzione di una clausola di sbarramento simile a quella prevista dal sistema tedesco. In particolare, la sua difesa si basa su tre diversi ordini di argomentazione. In primo luogo, chiama in causa una motivazione di principio forte, ossia l’idea che la democrazia sia possibile solo in presenza di un effettivo suffragio universale, e soprattutto che – come sosteneva Togliatti – solo il sistema proporzionale «rispetti il principio del suffragio universale e uguale» (p. 68). In secondo luogo, celebra il sistema proporzionale perché «costringe le forze politiche alla ricerca di un compromesso» indispensabile in particolare «nelle società industriali avanzate (dette anche ‘complesse’)», nelle quali «la ricerca del compromesso è l’unica alternativa al conflitto, ed è perciò necessaria» (pp. 68-69). Infine, considera gli effetti prodotti sui cittadini, ossia la capacità di ridurre – se non certo di eliminare – l’«analfabetismo politico», perché il sistema proporzionale evita «che una forza politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno preparati (più facili, proprio per ciò da sedurre) possa trovarsi, grazie ad un ‘marchingegno’ maggioritario, a fare un indebito pieno di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante maggioranza parlamentare» (p. 97). In altre parole, dunque: «Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente, il consenso, non già a studiare con quale combinazione riuscire vincitori al tavolo da gioco. Costringe dunque i partiti a ridiventare veicolo di educazione politica di massa (unica vera risposta efficace all’obiezione di principio sull’‘incompetenza’ dell’elettore) quali furono i grandi e meno grandi partiti che costruirono la nostra Repubblica» (pp. 97-98).

Il primo elemento evocato da Canfora – l’argomento togliattiano del suffragio universale e uguale – può naturalmente risultare condivisibile in linea di principio, ma è scontato che debba sollevare più di qualche obiezione, suggerita peraltro anche da un esame comparato del funzionamento dei sistemi politici occidentali. In questo senso, si potrebbe ribattere a Canfora che Regno Unito e Stati Uniti utilizzano varianti del sistema elettorale maggioritario, con effetti peraltro fortemente distorcenti del voto popolare, senza che nessuna forza politica rilevante ne abbia mai messo in discussione il carattere democratico. Ma anche in questo caso è prevedibile una contro-obiezione rivolta, oltre che a rilevare le specificità storico-politiche di quei regimi, a metterne in discussione l’effettiva democraticità (o la piena democraticità). Al di là di questo, sono però soprattutto le altre due argomentazioni di Canfora ad apparire al tempo stesso più suggestive e più deboli, e non certo perché non abbiano qualche fondamento. Al contrario, si tratta di argomenti che riflettono l’esperienza storica del Parteienstaat postbellico, ossia di uno Stato in cui i partiti presenti in Parlamento avevano effettivamente – come voleva Kelsen – la funzione di stipulare un «compromesso» fra le componenti di una società sempre sull’orlo della guerra civile, e in cui svolgevano una funzione di educazione delle masse. In quel contesto, il sistema proporzionale aveva realmente la capacità di evitare il riacutizzarsi di vecchie fratture e dunque di ‘civilizzare’ il conflitto politico. Il punto debole del ragionamento di Canfora non consiste dunque nella descrizione della funzione che il sistema proporzionale svolse in quel contesto, ma nell’implicita convinzione che il sistema elettorale sia di per sé in grado di produrre quegli effetti sui partiti e sulla società. In questo modo, Canfora finisce infatti col cadere nello stesso vizio che imputa ai propri bersagli polemici. In altre parole, i dirigenti del Pci/Pds, a un certo punto, si convinsero effettivamente, come rileva Canfora, che alcune caratteristiche di fondo della società italiana potessero essere superate grazie alle virtù dell’«ingegneria elettorale», e che cioè la sinistra potesse finalmente accedere alla ‘stanza dei bottoni’ grazie a un sistema elettorale ben congegnato, e soprattutto capace di consentire finalmente l’alternanza di governo. Ma, benché segua una strada molto diversa, anche Canfora sviluppa in realtà un ragionamento simile, perché anch’egli finisce con l’imboccare una sorta di «scorciatoia», e col cedere dunque alle seduzioni dell’«ingegneria elettorale». In fondo, anche Canfora assegna infatti al sistema elettorale proporzionale la facoltà di produrre partiti forti, strutturati sul territorio e persino capaci di educare i cittadini al gioco democratico. Così, non diversamente dai referendari dei primi anni Novanta, giunge a ritrovare nella legge elettorale la chiave per risolvere l’eterna ‘anomalia italiana’. Ed è invece proprio da queste illusioni che è necessario guardarsi. Non certo perché il ritorno a un sistema proporzionale, magari con correzioni simili a quelle previste nel sistema tedesco, non sia sostenibile, auspicabile o persino augurabile. Ma perché sarebbe illusorio ritenere che solo il ritorno al proporzionale possa davvero ricostruire in Italia quei partiti omogenei, coerenti e relativamente stabili, senza i quali ogni sistema elettorale è per molti versi destinato a produrre una sostanziale instabilità.

 

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