di Renata Gravina

“E’ a Sarajevo nell’estate del 1914 che l’Europa è entrata in un secolo di follia e autodistruzione…, è a Sarajevo nell’estate del 2014 che l’Europa deve dimostrare che un nuovo secolo europeo è arrivato”.

“I Balcani nel futuro dell’Europa”. Forse oggi suona ossimorico il titolo del rapporto del 2005, redatto dalla commissione internazionale sui Balcani. Presieduta da Giuliano Amato e sostenuta da alcune Fondazioni europee e statunitensi la commissione era intervenuta allora nel dibattito sul futuro dell’area balcanica – a dieci anni dalla firma degli accordi di Dayton e a cinque dalla guerra del Kosovo.

Amato allora ricordava: “Stiamo correndo il rischio reale di un’esplosione del Kosovo, un’implosione della Serbia e di nuove fratture nelle fondamenta di Bosnia e Macedonia”. La data ideale per un’integrazione dei paesi balcanici in Europa sarebbe dovuta essere entro il 2014.

La Commissione nel suo complesso, poneva l’accento sulla necessità di risolvere urgentemente le questioni costituzionali e di status ancora aperte, per far muovere la regione intera dallo stadio di protettorati e Stati deboli a quello dell’integrazione europea, secondo un calendario.

Per l’Unione Europea, la scelta relativa all’area balcanica si attestava tra allargamento o Impero: “O gli Stati balcanici potranno diventare membri dell’UE entro la prossima decade, oppure in luoghi come il Kosovo, la Bosnia e anche la Macedonia, l’UE assumerà le forme di una potenza neocoloniale”.

Per il Kosovo, cuore sperimentale delle politiche integrazioniste, la strategia si dipanava in quattro fasi successive: separazione “de facto” del Kosovo dalla Serbia; indipendenza del Kosovo senza piena sovranità (entro il 2005/2006); “sovranità guidata” con candidatura del Kosovo a membro dell’UE e complementare apertura dei negoziati; piena e “condivisa” sovranità, Kosovo nell’Unione con tutte le prerogative della sovranità limitata che pertiene agli Stati membri dell’UE.

Oggi la Serbia di Tomislav Nikolić (capo di Sns, il partito progressista) neopresidente in tandem con il governo di Ivica Dacić (capo di Sps, il partito socialista), non ha contraddetto l’abito europeista indossato da qualche tempo, dopo una secolarizzazione forzata dall’ala radicale nazionalista ed antieuropeista di Vojislav Šešelj.

“La Serbia non si allontanerà dalla strada europea ma non dimenticherà nemmeno la sua gente in Kosovo”, è stata la prima dichiarazione di Nicolić. Una dichiarazione che a ben vedere ricalca esattamente la politica sostenuta dall’ex presidente Boris Tadić, nota come “Sia l’UE che il Kosovo”. La seconda dichiarazione di Nikolić: “Chiederò un colloquio con la signora Merkel, la Germania è l’alleato principale della Serbia”, rafforza un distacco dal revanscismo originario dell’ultra destra. La retorica di Nikolić si è rivolta nelle settimane di campagna elettorale contro le politiche di Tadić. I ventuno punti del “Bela Knijga”, il libro bianco diffuso dal Partito progressista durante la campagna elettorale, hanno fatto leva sulla frattura tra la base elettorale e l’élite del governo uscente. Nikolić in effetti ha veicolato l’idea che la piaga della corruzione politica, la partitocrazia imperante, i rapporti turbolenti con il Kosovo, la crisi economica e la disoccupazione si possano risolvere solo restituendo centralità al popolo serbo. Si tratta di uno strano mélange di nazionalismo, protezionismo economico, euro-entusiasmo e solidarietà panslavista.

Nonostante un accordo stretto con il DSS di Koštunica che impegnava Nikolić ad un referendum sull’ingresso della Serbia nell’UE, difficilmente il neo presidente compierà scelte in politica estera che vadano palesemente contro il percorso già avviato verso l’Unione europea. Nicolic dato come “eurofilo” resta ambiguo e non garantisce la dissoluzione delle difficoltà rispetto al Kosovo. Le discussioni Belgrado-Pristina devono, secondo NiKolić e Dacić, continuare e iniziare a determinare relazioni equilibrate senza interrompere il cammino serbo verso l’ Europa. Al di là della posizione ufficiale filoeuropeista i motivi per ritenere che la politica estera serba inclinerà la rotta, sono la rinnovata centralità dell’influenza economica russa, alimentata attraverso un proficuo partenariato tra il partito di Nikolić e “Russia unita” ed ancora attraverso un netto sostegno a Sns elargito da parte dell’ambasciatore russo Konuzin durante la campagna elettorale, a cui non di meno si affianca l’essenziale perdita di credibilità politica dell’Europa e delle sue istituzioni. Ai serbi il fallimento greco, la crudezza impositiva di Berlino hanno fatto aprire gli occhi sulle illusioni perdute dell’Europa come panacea. Nikolić non idealizza la prospettiva europea né la rifiuta. Egli ha nutrito gli elettori con delusione e speranza collettiva, ha fatto proseliti in coloro che si sono sentiti orfani di arbitrio politico durante gli anni di sperimentazione di Tadić. Il Kosovo resta così nel limbo per l’ex duce dei cetnici santificatosi nella Repubblica di Serbia.

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