di Federico Donelli
Passate un po’ in sordina poiché tenutesi a pochi giorni di distanza da quelle israeliane, mediaticamente e politicamente più importanti, le elezioni parlamentari giordane hanno avuto esiti positivi rispetto alle previsioni soprattutto in termini di affluenza alle urne.
Il 23 gennaio scorso si sono tenute in Giordania le elezioni per il Parlamento, le prime a seguito delle rivolte arabe i cui echi sono inevitabilmente arrivati fino al regno hascemita obbligando il sovrano re Abdullah II ad introdurre una serie di modifiche nel sistema politico istituzionale del Paese.
I timori di elevati tassi di astensionismo derivavano dalla scelta della più grande forza politica del Paese, nonché principale blocco di opposizione al regime, di boicottare le elezioni in segno di protesta verso le mancate concessioni del sovrano e contro l’approvazione di una legge (aprile 2012) che vieta la costituzione di forze politiche su base religiosa, etnica e confessionale.
Il gruppo, composto dall’ala giordana dei Fratelli Musulmani ed organizzato da tempo nel Fronte d’Azione Islamico ha contestato duramente le nuove circoscrizioni utilizzate in questa tornata elettorale; secondo il nuovo regolamento, dei 150 seggi disponibili solamente 27 sono assegnati a liste nazionali mentre il rimanente viene attribuito a circoscrizioni prevalentemente composte da tribù e clan tradizionalmente vicini alla corona hascemita.
Il regno giordano è fondamentalmente una costruzione “artificiale”, frutto di una compensazione britannica al termine della Prima Guerra Mondiale nei confronti dell’allora Sharif di Mecca Hussein (trisnonno dell’attuale sovrano), e come tale la legittimità della famiglia reale dipende da accordi raggiunti dalla famiglia hascemita negli anni Quaranta (indipendenza ufficiale raggiunta solo nel 1946) con le molte tribù beduine preesistenti nel territorio, insieme alle quali diedero vita ad una delicata identità nazionale.
Oggi, in una fase di generale instabilità per l’intera regione ed in particolare per due Stati confinanti (Siria, Iraq), l’antica lealtà tribale, oltre ai più recenti legami instaurati con l’altra importante componente del regno ossia quella palestinese (legami stretti anche grazie alla famiglia della regina Rania di origine palestinese), garantiscono a re Abdullah II il controllo del Paese.
La stessa branca dei Fratelli Musulmani giordani si è storicamente dimostrata maggiormente disponibile al compromesso rispetto al gruppo egiziano, per questo non è da escludere che a medio/lungo termine i rapporti con il sovrano possano migliorare. Questi fattori però, per quanto risultino intrecci fondamentali ai fini della stabilità politica del regno, non bastano a garantire una futura stabilità sociale, minacciata soprattutto dal crescente malessere della popolazione. Il popolo giordano è mosso non solo da rivendicazioni di maggiori libertà politiche e civili ma anche dalle pessime condizioni di vita in cui versa, conseguenza di un’economia alle prese con una delle più profonde crisi degli ultimi decenni. Il governo giordano deve affrontare principalmente due questioni molto delicate: elevati tassi di disoccupazione che a livello giovanile superano il (40%); la necessità di saldare nel breve periodo un debito di 2,2 miliardi di dollari nei confronti del Fondo Monetario Internazionale.
Queste condizioni oltre a vincolare molto le scelte del governo hanno portato ad una crescente frustrazione nei giovani, già primi attori nelle primavere arabe, che preoccupa il sovrano Abdullah II. Il re può ancora ribaltare a proprio vantaggio la situazione facendosi promotore di una nuova fase di transizione democratica, non violenta e guidata dall’alto che superi l’attuale stadio di cosiddetta autocrazia liberale a favore di un maggiore pluralismo politico.
La sfida è grande, forse troppo per un sovrano che in quanto a personalità ed autorevolezza non ha mai convinto fino in fondo subendo quotidianamente il confronto con la figura del ben più famoso e carismatico padre; tuttavia, la transizione giordana rappresenta anche per il mondo occidentale una irripetibile occasione.
Appoggiare economicamente e politicamente il governo giordano lungo la strada delle riforme senza però peccare di eccessiva ingerenza, potrebbe risultare fondamentale sia per riuscire a fornire un’alternativa valida ai regimi a forte carattere islamico emersi a seguito delle rivolte arabe, sia perché il crollo della monarchia giordana rischierebbe di innescare una pericolosa e contagiosa ondata di anarchia e violenza, sulla falsa riga di quanto sta avvenendo in Libia, alle porte di Israele.
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