di Angelica Stramazzi
Il segretario del Popolo della Libertà Angelino Alfano è stato spesso oggetto di derisione e di scherno. Il suo desiderio di fare del Pdl «il partito degli onesti» non è stato mai preso troppo sul serio, financo dai componenti di quella stessa classe dirigente cui Alfano iniziò a rivolgersi con insistenza a partire dal luglio del 2011, momento in cui assunse, per acclamazione, la carica di segretario nazionale. Un ruolo, il suo, assai delicato, che si è posto fin dall’inizio – seppur in maniera poco evidente – in antitesi con quello giocato dal Cavaliere, leader carismatico e guida indiscussa di un partito lasciato troppe volte allo sbando, preda (e bottino) delle smisurate (ed eccessive) ambizioni personali dei molti ras azzurri dislocati lungo tutta la penisola.
Strozzato da un carrierismo esasperato e da incontrollabili (e schizofreniche) bramosie di potere, il Popolo della Libertà ha perso la partita del radicamento e della strutturazione territoriale, a tutto vantaggio di operazioni non troppo chiare e meritorie, che hanno finito per rendere questa creatura un soggetto acefalo, privo di smalto ed originalità. La volontà di incidere significativamente nel mutamento (radicale e significativo) del sistema-Paese si è di fatto arenata di fronte alle diatribe interne e alle lotte intestine che hanno caratterizzato la creatura “leggera e liberale” ipotizzata da Silvio Berlusconi al momento della “svolta del predellino”. E se a questo fallimento hanno contribuito anche altre personalità – il ruolo ambiguo giocato da Gianfranco Fini, considerato da tutti leader naturale di una destra che ancora fatica a raccontare (oltre che ad immaginare) sé stessa – è innegabile che il potere catalizzatore ed onnipervasivo dell’ex premier non abbia consentito l’emersione di figure altre rispetto al principale centro di aggregazione delle diverse anime: la figura del Cavaliere, giustappunto.
In un simile contesto, Angelino Alfano è riuscito a giocare – seppur in maniera altalenante e con entusiasmo intermittente – una partita importante: quella di trasformare il Popolo della Libertà in un soggetto che fosse qualcosa di più di un semplice contenitore da riempire (solamente) con slogan e frasi fatte. Il suo voler porre, fin dall’inizio della sua designazione a segretario nazionale, dei punti fermi per l’individuazione dei candidati e delle strategie da seguire – premiare l’onestà e la rettitudine, il merito e la competenza, oltre che la conoscenza dei territori – equivale al tentativo di voler indire un cambio di passo rispetto alla gestione precedente, caratterizzata da un eccessivo centralismo carismatico a scapito di quello democratico. E se la presenza di un leader forte e capace di imporsi è senza dubbio vitale per qualsiasi partito che agisca in una prospettiva moderna ed in sintonia con i mutamenti della società, ritagliarsi uno spazio autonomo, nonostante la presenza (ancora) in campo di Silvio Berlusconi, non è un’operazione da poco.
Ma se Alfano è stato più volte lasciato solo, nel suo tentativo (disperato) di rendere il Pdl un partito vero e non già (o non solo) un semplice comitato elettorale, da non pochi esponenti di primo piano della classe dirigente azzurra, l’ex Guardasigilli è riuscito a conquistarsi un ruolo a sé stante: un’area in cui intervenire (abbastanza autonomamente) senza dover per forza di cose render conto a questo o a quello delle ragioni delle sue dichiarazioni. La crescita politica (e personale) di Alfano è infatti tutta evidente in questa campagna elettorale, in cui il Pdl, pur gravato da scandali di mala gestione del denaro pubblico, sfociati poi in arricchimenti personali, sta dimostrando di esserci; e di saper condizionare l’andamento del voto.
In una sua recente partecipazione alla trasmissione “Omnibus” di La7, il segretario Alfano, rispondendo a chi gli faceva notare le critiche mosse nei confronti della sua persona da Nicola Cosentino, ha precisato di non aver mai posto «la mia ambizione personale prima dell’interesse del mio partito». Una frase questa che potrebbe essere vista come un semplice giustificativo avanzato da chi si sente in dovere di scusarsi per aver commesso qualcosa di troppo azzardato. Ma affermare questo significa non riconoscere che un’evoluzione nella personalità di Alfano è comunque avvenuta. E non si tratta, a ben riflettere, di un mutamento lieve o di secondo ordine: l’ex Guardasigilli sta facendo sentire la sua voce, battendo i pugni sul tavolo quando gli si rimprovera il mancato ricambio generazionale – in parte reale ed oggettivo – nella composizione delle liste in vista del rinnovo del Parlamento. Egli è, in buona sostanza, non più “l’eterno secondo”, destinato a vivere all’ombra del Cavaliere, subendone non solo il fascino ma soprattutto i condizionamenti: nel suo incedere a passo non troppo veloce ma deciso in questa campagna elettorale dall’esito incerto, Alfano dimostra di aver maturato una consapevolezza maggiore – rispetto al passato – delle responsabilità che il suo ruolo di segretario gli impone. In atri termini, sa che così facendo la vera partita potrà giocarsela ad urne chiuse, cioè quando, al netto del risultato elettorale, egli sarà – Cavaliere a parte – un punto di riferimento non solo per quella generazione di quarantenni che nel Pdl esiste ed è presente; ma soprattutto per i leader degli altri schieramenti che con la sua figura dovranno inevitabilmente fare i conti.
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