di Antonio Campati

Fuorigioco«Senta, se vuole essere rassicurato sul fatto che lei sa scrivere, lo posso fare fino a domani, però bisogna anche avere qualcosa da dire. Se non ha niente di significativo da dire e vuole semplicemente fare dei discorsi grammaticalmente ineccepibili, smetta di scrivere romanzi e si candidi per il Partito Democratico. Ma aver già detto tutto quello che uno ha da dire non è una colpa, sa? In fondo, non la obbliga mica il dottore a scrivere romanzi».

Il modo rude con il quale Leonardo risponde a Giacomo durante un concitato dialogo tratto dal fortunato romanzo Argento vivo di Marco Malvardi (Sellerio, 2013) ci rivela – o, per i più addetti ai lavori, semplicemente ricorda – uno degli stereotipi che il Partito Democratico porta con sé fin dal giorno della sua nascita. In verità, sostenere genericamente che l’intrattenere le folle (televisive) con discorsi vacui e retorici sia tipico degli esponenti della sinistra italiana potrebbe infastidire non pochi dirigenti, militanti o semplici elettori di quell’area politica. Gli oceanici comizi dei leader comunisti, le profonde e pensose riflessioni degli intellettuali di area o le analisi contenute in libri cult potrebbero smentire palesemente una siffatta provocazione. Ma l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Pd ha amplificato in ampi settori del suo elettorato (e della sua base militante) la paura che una sorta di ‘purezza’ venisse cancellata una volta per tutte. Che, in altre parole, venisse annacquata una storia politica e, con essa, una tradizione di partito-comunità ancora indispensabile, basata su una «ideologia collettivista» in grado di rappresentare un efficace argine all’uomo solo al comando, nocivo per la democrazia rappresentativa.

Tuttavia, la vittoria alle primarie di Matteo Renzi potrebbe aver cambiato qualcosa. E in modo inequivocabile, tanto da spingere Pierluigi Battista a scrivere (Corriere del 21 gennaio) che il sindaco di Firenze, incontrando Berlusconi nella sede dei democratici, ha provocato uno «strappo psicologico» talmente forte da annullare il «vizio» della «superiorità morale» e capace di aprire, anche per la sinistra italiana, un nuovo percorso basato sull’«idea che con l’avversario si entra in conflitto quando si parla di programmi di governo, ma nei confronti del quale prima o poi si deve fermare la giostra stucchevole dell’eterna delegittimazione».

Ad ogni modo, se si vuole analizzare il problema allargando l’orizzonte oltre la contingenza (e, forse, per capirla meglio), occorre chiarire quale sia l’effettivo rapporto che la sinistra riserva al tema della personalizzazione della politica. Sì, perché di questo (ancora) si tratta. Recentemente, Mauro Calise (Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza, 2013, pp. 156) si è soffermato sulla ‘paura’ che proprio la sinistra italiana prova nei confronti delle leadership. Nello specifico, Calise rimprovera al Pd di essersi arroccato sulla difensiva rispetto all’ascesa di leader forti, senza rendersi conto che, oggi, senza di essi non è possibile condurre una campagna elettorale vincente. E, così facendo, il partito erede della tradizione comunista non si è accorto che la vera «mutazione genetica» si stava consumando al suo interno, provocando la trasformazione dell’antica oligarchia del comando e del centralismo democratico in un’«armata di micronotabili». In questo modo, l’attività frenetica di quest’ultima unita all’originario rifiuto di legittimare leader al suo vertice hanno condotto il Pd per due volte in «fuorigioco».

L’analisi di Calise – che si sofferma anche sulle modalità attraverso le quali il «virus del micropotere» si è insinuato nella struttura e nel ceto politico del Pd – dedica diverse pagine ad alcune personalità di spicco della sinistra dell’ultimo ventennio, elette o nominate in ruoli di alta responsabilità politica e istituzionale. Le quali, in diversi casi, hanno riportato successi invidiabili tanto da rappresentare, per l’autore, la dimostrazione lampante che «il leader forte non appartiene alla destra, contrariamente a quel che una certa ideologia cerca ancora di far passare».

Tra queste figure, ovviamente, manca Matteo Renzi. Ma il libro, pubblicato nell’ottobre scorso (e quindi prima che il sindaco di Firenze vincesse le primarie) si conclude evocandone, in un certo qual modo, la figura. Per Calise, attualmente, il difficile nodo da sciogliere per il Pd è quello di ricostruire il partito (diviso in «correnti in lotta fratricida») debellando il virus della micropersonalizzazione. E così sintetizza: «può darsi, infatti, che alla fine l’oligarchia ancora in sella si rassegnerà ad affidare le sorti malcerte del partito a un condottiero degno di questo nome. Ma sarà un cavallo di troia, se dal suo ventre usciranno indenni le falangi dei micronotabili».

In effetti, da quasi due mesi a questa parte, la dirigenza e i votanti alle primarie sembrano aver affidato a Renzi il compito di guidare un’ennesima ‘svolta’, tante volte rincorsa e altrettante svanita. Ma la cronaca recente ha portato nuovamente alla ribalta il problema: da un lato, c’è chi sostiene che la «responsabilità collettiva» sia l’asse portante del partito, dall’altra chi – il segretario – crede di non poter (più) agire con «responsabilità limitata», ma in prima persona, da protagonista (forte della legittimazione ottenuta dalle primarie). La divergenza di vedute è rappresentata, ormai quotidianamente, quasi in maniera plastica e, chiaramente, non è possibile prevederne la direzione futura. Ma rileva la necessità di una scelta che, da un certo punto di vista, corrisponde a uno dei compiti più ardui che Renzi ha sostenuto di voler adempiere: cambiare-verso al modo di guidare il Pd, per non rischiare un ennesimo fuorigioco.

 

 

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