di Damiano Palano
Quasi vent’anni fa, la campagna elettorale del 1994 precipitò l’Italia, nell’arco di pochi mesi, dall’entusiasmo forcaiolo dei giorni di Tangentopoli al clima di un infuocato conflitto ideologico, che rinfocolava odi a lungo rimasti sommersi, e di cui molti non sospettavano neppure lontanamente la residua forza. Se gli anni Ottanta erano stati dipinti come una stagione di ‘rinascita’ della democrazia dopo il periodo oscuro del terrorismo, con la scomparsa della Democrazia Cristiana e del partito di Craxi molti dei fantasmi del passato riemersero vigorosamente, conquistando il centro del proscenio. Di fronte all’ipotesi di una vittoria elettorale dei «Progressisti» si formò nell’arco di poche settimane un blocco eterogeneo che univa sotto un’unica bandiera gli eredi del Movimento Sociale, la Lega Nord e una nuova formazione, ancora misteriosa (e per molti inquietante), creata a tempo di record da Silvio Berlusconi. Nonostante entrambi gli schieramenti puntassero su un immagine di efficienza tecnocratica lontana dai tradizionali richiami all’appartenenza politica degli elettori, la campagna elettorale che precedette l’appuntamento del 27 marzo 1994 divenne forse una delle più ideologiche della storia repubblicana, e molti osservatori rilevarono paradossali analogie con le elezioni del 18 aprile 1948. All’acceso furore anticomunista sbandierato da Berlusconi, rispondevano gli allarmi lanciati da un vasto fronte di politici e intellettuali sul possibile avvento di un ‘nuovo fascismo’. E benché gli eredi principali del Pci e del Msi avessero dichiarato esplicitamente la loro rottura con il passato, nella realtà continuarono a lungo ad accusarsi reciprocamente di non aver compiuto una sincera e completa autocritica per le rispettive colpe.
Proprio in quei giorni usciva nelle librerie italiane un volumetto di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, l’ennesimo della sua sterminata produzione. Nonostante non fosse né il prodotto migliore del filosofo torinese, né un lavoro particolarmente originale, Destra e sinistra divenne, in modo del tutto inaspettato, un vero e proprio best seller, conquistando per settimane il vertice delle classifiche di vendita. Il messaggio del libro era piuttosto chiaro, e lo stile didattico, insieme alla concisione dell’esposizione, lo rendeva appetibile a un vasto pubblico, solitamente disinteressato alle questioni di teoria politica. In sintesi, il discorso di Bobbio consisteva nel considerare l’opposizione destra-sinistra come una particolare espressione della dicotomica dell’universo politico. Più in particolare, sosteneva che l’idea «secondo cui la distinzione fra sinistra e destra corrisponde alla differenza fra egualitarismo e inegualitarismo», che quindi essa «si risolve in ultima istanza nella differenza di percezione e di valutazione di ciò che rende gli uomini eguali o diseguali». Per alcuni aspetti, l’operazione di Bobbio rischiava di apparire semplicistica, quantomeno perché collocava in un vuoto di determinazione storica una dicotomia concettuale elementare, che, in questo modo, invece di spiegare differenze e peculiarità, finiva con l’appiattire e confondere tutto. Forse anche per la struttura così elementare della sua proposta, Destra e sinistra divenne una vera e propria bandiera per i «Progressisti» italiani, allora alla disperata ricerca di un fondamento teorico. Rinnegato il loro passato per aspirare alla conquista dell’elettorato moderato, i nuovi leader della sinistra si aggrapparono in effetti a simboli del tutto a-ideologici e tranquillizzanti, come l’immagine di un arcobaleno o la fotografia di un neonato, oltre che a un concetto sbiadito come quello di «progresso». In questo quadro, il volumetto di Bobbio, travalicando i confini della letteratura scientifica, si tramutò in una sorta di piccolo manifesto politico per gran parte di quel «popolo della sinistra» che – orfano del marxismo, del socialismo e dei tradizionali riferimenti ideologici – aveva trovato in una singolare sintesi di furore antiberlusconiano e memoria antifascista la temporanea conferma della propria identità.
A vent’anni di distanza, nei giorni di una campagna elettorale che forse non chiude la ‘Seconda Repubblica’, ma che ne certifica quantomeno lo stato di agonia, Carlo Galli torna sul quesito dell’identità della sinistra, tentando in particolare di comprendere quale sia il cuore più autentico di quel modo di vedere la realtà, e di quella modalità dell’appartenenza politica, cui è stato assegnato il nome di «sinistra». Sebbene l’uscita del volume, nuovo episodio di una lunga ricerca intellettuale, sia andata a coincidere con il momento più infuocato di una campagna che ha visto Galli schierato tra le fila del Partito Democratico, sarebbe ingeneroso – oltre che improprio – considerare Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, Milano, 2013, pp. 165, euro 17.50) come un manifesto elettorale, o come un istant-book. Pur accostandosi all’odierna situazione italiana, il libro di Galli sviluppa infatti un ragionamento molto più ampio, che si interroga sui grandi mutamenti della politica globale, sulla sconfitta della sinistra novecentesca e sulla possibilità di dare ancora un significato a un termine che pare sempre più offuscato, se non addirittura inutilizzabile.
Dal punto di vista teorico, l’analisi di Galli si lega alle tesi già sviluppate in Perché ancora destra e sinistra (Laterza, Roma – Bari, 2010). In quel pamphlet, Galli sosteneva che la distinzione fra destra e sinistra non deve essere ricercata nei contenuti di questi concetti, bensì nelle modalità in cui le sfide poste dalla storia vengono di volta in affrontate. La distinzione fra destra e sinistra, una distinzione che rompe l’unità del campo politico, è dunque una conseguenza della modernità, e del costante oscillare della modernità fra contingenza e necessità. E anche per questo – sosteneva Galli in quel volumetto – la dicotomia destra/ sinistra non può essere superata neppure nell’«età oltremoderna», sebbene i contenuti assegnati a una e all’altra parte non possano che modificarsi rispetto al passato, perché cambiano le modalità di intendere i soggetti, le loro energie, la loro progettualità.
A distanza di qualche anno, Galli riprende il discorso, senza modificare naturalmente la chiave interpretativa generale, ma interrogandosi più specificamente su come possa oggi essere ridefinita la «sinistra», dinanzi al mutare dei soggetti e al tramonto delle progettualità novecentesche. Un aspetto cruciale del percorso di Galli consiste nella convinzione che la filosofia moderna offra una chiave essenziale per comprendere davvero la storia e la politica, e che dunque i significati mutevoli della sinistra possano essere compresi come riflessi del modo in cui – con strumenti filosofici differenti – viene raffigurato il rapporto fra la Parte e il Tutto. Come scrive infatti Galli: «‘sinistra’ è il nome di una Parte, di un settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. Parte e Tutto si implicano l’una nell’altro. C’è l’una perché c’è l’altro. Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia col Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali strumenti politico-istituzionali, sono questioni che si spiegano col risalire alle principali tradizioni filosofiche della modernità» (p. 13). Queste tradizioni sono per Galli principalmente il razionalismo, la tradizione dialettica, il pensiero negativo. E ovviamente, dal punto di vista politico, ognuno dei tre modi di rappresentare il rapporto fra la Parte e il Tutto produce conseguenze diverse, e soprattutto indirizza verso specifiche risposte alle concrete sfide della storia. In questo senso, Galli individua nella storia del Novecento quatto grandi rivoluzioni, che scandiscono il «secolo lungo»: il comunismo, il fascismo, lo Stato sociale, il neoliberismo. «Queste quattro rivoluzioni, queste diverse forme di organizzazione delle cose umane», scrive Galli, «nascono da precise condizioni materiali, da rapporti di produzione, da livelli di tecnologia, da posizioni e da proiezioni di potenza interne e internazionali; ma trovano spiegazione e comprensione (e, in parte, autocomprensione ideologica) anche come momenti della concorrenza fra razionalismo, pensiero dialettico e pensiero negativo per attuare l’obiettivo del Moderno: per costruire la politica secondo la misura dell’uomo, cioè secondo la razionalità, la dignità, i diritti di ogni singolo – per individuare un’altra misura, oltre il soggetto» (p. 38).
Nella ricostruzione di Galli è scontato che siano soprattutto le due ultime rivoluzioni ad avere un ruolo, perché è proprio in queste due tappe che si delinea la disgregazione politica e simbolica della sinistra contemporanea. E, soprattutto, perché è la globalizzazione a scardinare le fondamenta della sinistra novecentesca. In particolare, lo Stato sociale è considerato da Galli nei termini di un compromesso fra capitale e lavoro, in cui socialdemocrazie e democrazia liberale vengono a convergere sull’idea che sia possibile conquistare «un equilibrio fra popolo e capitalismo». La rivoluzione dello Stato sociale, e il compromesso fra capitale e lavoro, si basavano peraltro su una serie di presupposti economici, politici e sociali. E proprio il progressivo sgretolamento di tali presupposti ha preparato il terreno alla quarta rivoluzione, la rivoluzione neoliberista, di cui Galli riconosce le prime tracce nella svolta conservatrice di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Una svolta che non si limita a modificare la logica delle politiche keynesiane, ma che riscrive lo stesso rapporto fra le Parti e il Tutto. Ed è ovviamente la quarta rivoluzione novecentesca a determinare una crisi radicale per la sinistra novecentesca, o quantomeno per quella sinistra che aveva trovato il proprio fondamento nella democrazia post-bellica, nel compromesso fra capitale e lavoro, nella costruzione dello Stato sociale, nei grandi partiti di massa come mediatori e rappresentanti delle più differenti istanze sociali. Ma il risultato principale di questa quarta rivoluzione, agli occhi di Galli, è addirittura la distruzione di qualsiasi universale, o meglio la costruzione di «un mondo senza universale».
È all’interno di questo quadro interpretativo che Galli colloca la propria analisi della sinistra italiana, e in particolare della storia (e dell’eredità) del Pci. In questo senso, Galli riprende la vecchia tesi della «doppiezza» di Togliatti e del Partito comunista, ma ne modifica in larga parte il senso. La scelta del Pci del dopoguerra di conservare l’ambizione dell’«oltrepassamento» del capitalismo e, al tempo stesso, di trasformarsi in un partito saldamente incardinato nella dinamica di una democrazia liberale è intesa infatti da Galli come «una doppiezza strategica» che «non è malafede, ma che deriva dal cuore del pensiero dialettico (particolarmente se interpretato come storicismo), ossia dall’idea che il ritmo della storia e della politica è evolutivo, e che in ogni posizione (anche nella democrazia) è contenuto un elemento di contraddizione che la rende instabile, che le impedisce di essere la figura ‘ultima’ della storia, che anzi la mobilita verso il proprio oltrepassamento» (p. 69). Ma, forzando sullo stesso schema dialettico, il Pci si pone addirittura, più che come istanza di Parte, come «asse portante del Tutto – dello Stato democratico –, come cardine della democrazia repubblicana», oltre che come una forza che «ha scommesso sulla propria capacità di essere, rispetto a quel Tutto, anche la Parte capace di spostare avanti l’orizzonte della democrazia verso l’orizzonte del socialismo, pur accettando la democrazia come lo spazio che per intanto determina l’azione politica reale» (p. 70). Naturalmente, l’obiettivo del socialismo diventa a poco a poco un «mito», un «sogno», ma ciò non toglie – secondo Galli – che proprio questo riferimento consenta alla «doppiezza» di declinarsi in modo originale: per un verso, come rivendicazione del carattere di Parte, e, per l’altro, come trasformazione in «pilastro dello Stato e della democrazia», in «una forza capace di stare costruttivamente e progressivamente nella società proprio perché crede nella democrazia del presente e al contempo nel socialismo del mondo che verrà» (p. 72).
Il riflesso più evidente della «doppiezza» del Pci è naturalmente il ruolo di governo assunto nelle amministrazioni locali della ‘zona rossa’. Le amministrazioni emiliane erano infatti, già nella lettura che ne diede Togliatti nella famosa conferenza del 1946 Ceto medio ed Emilia rossa, la prefigurazione di «una società che avrebbe dovuto essere un modello per la nazione», il modello di «quel ‘patto fra produttori’ che era il lato economico della ‘democrazia progressiva’» (p. 73), e che consisteva in sostanza nella capacità di assecondare il capitalismo, lo sviluppo locale, le istanze imprenditoriali, gli interessi dei ceti medi, garantendo al tempo stesso la diffusione di una solida struttura di welfare locale, buona amministrazione, sostegno ai ceti subalterni. La forza della «doppiezza» del Pci inizia però ad esaurirsi già in corrispondenza con il momento di massima avanzata elettorale, in occasione delle consultazioni amministrative del 15 giugno 1975 e delle politiche del 20 giugno 1976. È in questo momento che, secondo Galli, «il Pci perde proprio l’energia delle Parti, poiché, mentre allarga la propria base elettorale, pezzi di società si allontanano dal partito e gli si lanciano contro», e perché in questo modo «perde anche la scommessa strategica di farsi Tutto non solo in quanto difensore dello Stato ma anche in quanto ammesso al governo» (p. 85). Naturalmente, Galli pensa al Settantasette bolognese, che per la prima volta vede un consistente movimento giovanile scagliarsi contro il Pci e contro la città vetrina della buona amministrazione comunista, ma pensa anche al terrorismo, le cui vicende vengono a calare il sipario sulla «fase espansiva della democrazia italiana» (p. 88). Da allora, e in particolare dopo la conclusione della parentesi del ‘compromesso storico’, il Pci appare sempre più disorientato, incapace di reagire alla nuova ondata che travolge l’Occidente e, di lì a pochi anni, il mondo intero. Negli anni Ottanta, il Pci si rinchiude in una «politica di denuncia» e appare sempre più come un «partito di fordisti spaesati fra gli yuppies» (p. 93). E anche la ‘svolta della Bolognina’, con tutte le successive (più o meno memorabili) svolte, non avrebbe modificato sostanzialmente il quadro di un disorientamento generale, declinato di volta in volta in una sorta di occasionalismo politico, in grado forse di afferrare le parole d’ordine del momento, ma del tutto incapace di formulare un progetto e di ridefinire un’identità. Ma, in questo caso, non si tratta solo di una storia italiana. Perché opportunamente Galli considera la Seconda Repubblica italiana come la declinazione locale di quella quarta rivoluzione novecentesca che modifica completamente il quadro in cui si era mossa la sinistra post-bellica. E sebbene il «comunismo» del Pci, in special modo quello delle amministrazioni ‘rosse’, avesse ben poco da spartire con l’Unione Sovietica, la sinistra italiana non poteva certo sottrarsi all’impatto di una travolgente ondata globale. «Il punto», scrive Galli, «è che la rivoluzione fa male a chi non la fa; e la quarta rivoluzione la sinistra l’ha subita» (p. 97).
Dinanzi a un simile scenario, Galli cerca di capire quale significato la parola «sinistra» possa ancora avere, quale compito le forze di sinistra debbano assumere, e soprattutto quante sinistre effettivamente – e credibilmente – si trovino oggi sul campo della battaglia politica. E in questo senso, nella foresta di filoni e movimenti che si richiamano alle differenti declinazioni della sinistra, Galli scorge soprattutto «una spaccatura profonda fra le due sinistre», ossia fra una sinistra riformista, cui è imputato «di praticare un’ideologica superficialità, di non affrontare le contraddizioni di fondo del neoliberalismo e dello Stato moderno», e una sinistra radicale, accusata invece «di velleitarismo, di infantilismo, di mancanza di realismo, di estremismo inconcludente e controproducente» (p. 111). È ovviamente non solo una frattura fra due diverse sinistre, ma anche una lacerazione – ormai all’apparenza insanabile – fra il movimento e l’istituzione, due momenti che ancora fino agli anni Settanta parevano legati da una relazione dialettica. Una lacerazione che invece – ed è questa la proposta forse principale sotto il profilo politico del discorso di Galli – andrebbe ricomposta all’interno di una nuova dialettica.
In effetti, per Galli «il pensare in termini di aut aut fra le due sinistre è un prodotto dell’epoca neoliberale», «una semplificazione in fondo conservatrice, che si adagia, sulla natura stessa del neo-liberismo» (p. 113). Ripensare la sinistra, nelle prospettiva di una «quinta rivoluzione», oltre quelle novecentesche, significa invece tentare di ricomporre la netta separazione che oppone le due sinistre. Per Galli, la vera decisione che la sinistra deve affrontare non consiste in una scelta fra i diversi aut aut che le vengono poste. È piuttosto la scelta «fra la logica degli aut aut, da una parte, e, dall’altra, la logica della Parte concreta, del ripartire dalle Parti, e cioè dai partiti e dai movimenti, da quanti vogliono prendere parte, partecipare, e al tempo stesso evitare la sterile parcellizzazione, il narcisismo particolaristico, il risentito ripiegamento sulla propria parte» (p. 119). E ripartire dalle Parti, dalla Parte concreta, significa soprattutto ripartire dal lavoro, in cui Galli ritrova l’unico possibile pilastro tanto per la sinistra di domani, quanto per un nuovo, ancora ipotetico New Deal.
Il caotico dibattito che ha scandito la campagna elettorale non ha comprensibilmente consegnato lo spazio che meritava all’analisi di Galli. Piegata sulla quotidianità, e spesso sui suoi risvolti più miserabili, la discussione non poteva certo affrontare con la dovuta serietà un ragionamento che, evidentemente, si colloca sui tempi lunghi e si proietta verso l’orizzonte dei prossimi decenni. All’indomani delle elezioni, molte delle polemiche che hanno scandito l’approssimarsi della consultazione si però sono dissolte, e il quadro che ci si attendeva – o che, quantomeno, si attendevano i più pessimisti – non solo si è puntualmente materializzato, ma si è materializzato con i contorni per molti versi ancora più cupi di una situazione di ingovernabilità pressoché ingestibile. Ed è forse in questo nuovo scenario che il ragionamento di Galli diventa ancora più interessante e lucido nel riconoscimento del passaggio di fase che stiamo attraversando. Non certo perché sia facile realizzare un nuovo New Deal. In un’economia dominata dai flussi finanziari, e in un mondo in cui il fronte ‘lavoro’ appare frammentato, scomposto, persino difficile da riconoscere, e forse impossibile da ricondurre sotto le insegne di qualsiasi organizzazione politica e sindacale presente e futura, diventa infatti molto complicato anche solo pensare – prima ancora che costruire – un equilibrato assetto istituzionale paragonabile al vecchio New Deal rooseveltiano.
Se i contorni di questo ‘nuovo compromesso’ rimangono ancora difficili da decifrare, il ragionamento di Galli riesce però a fornire una chiave di lettura del tutto adeguata per comprendere i rischi cui la sinistra si troverà esposta nei prossimi anni, rischi che la situazione italiana sembra già oggi palesare. Come sostiene Galli, la sinistra non solo è stata sconfitta radicalmente dalla quarta rivoluzione novecentesca, dalla rivoluzione globale, ma si è rivelata finora in larga parte incapace di rispondere a quella sfida. Per molti versi, è rimasta imprigionata nella gabbia della rivoluzione dello Stato sociale, una rivoluzione che certo ha scandito una fase importante nell’avvio del compromesso democratico post-bellico, ma le cui basi sono state travolte dalla trasformazione degli ultimi tre decenni. Il punto non consiste naturalmente nella rinuncia alla difesa dello Stato sociale, o ai diritti e ai principi che lo hanno contrassegnato. Ma consiste piuttosto nella dimensione in cui vengono ricercati gli strumenti per difendere questi diritti e questi principi. A dispetto della marcia compiuta dal processo di integrazione europea, e nonostante le principali misure di politica economica vengano ormai decise al livello europeo, la sinistra è sostanzialmente rimasta inchiodata alla sua dimensione nazionale, senza che quei labili raggruppamenti europei abbiano conquistato una rilevanza poco più che simbolica, e senza che i convegni che periodicamente coinvolgono i rappresentanti dei diversi partiti europei si dimostrino poco più che convention mediatiche. Naturalmente non si tratta di un problema che investa solo le forze di sinistra, ma il ritardo appare più evidente proprio su questo versante, perché emerge in modo particolarmente marcato il contrasto con la tradizione internazionalista del movimento operaio, il quale, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando non esistevano comunicazioni telefoniche, collegamenti aerei o Internet, riuscì a organizzare mobilitazioni che coinvolsero simultaneamente milioni di lavoratori nei vari continenti. E, benché si tratti evidentemente di esempi non riproducibili nella realtà contemporanea, al confronto con quei lontani episodi non può che apparire quasi sconcertante l’assoluta incapacità dell’odierna sinistra europea, e degli stessi sindacati, di organizzare iniziative che vadano al di là dei confini nazionali, e che riescano – anche solo all’interno del perimetro dell’Ue – a guadagnare un ruolo poco più che simbolico.
A ben vedere, simili difficoltà non tradiscono soltanto un ritardo organizzativo, o una carenza di leadership, ma palesano soprattutto la difficoltà teorica (e ideologica) di uscire da quei confini entro cui, nella stagione aurea dello sviluppo europeo, si sono potuti incardinare le strutture del welfare e un impianto di salvaguardia dei diritti individuali. Ma questi confini tendono oggi a diventare le sbarre di una gabbia da cui diventa sempre più difficile evadere. E, dall’interno di questa gabbia, le uniche opzioni rimangono due. Da un lato, consegnare le briglie del comando all’Ue, ossia sposarne la vocazione tecnocratica, limitandosi a una funzione di legittimazione di scelte più o meno efficaci. Dall’altro, impugnare la bandiera della sovranità nazionale perduta, adottare la causa di una difesa ‘nazionalista’ e dunque – sotto il profilo economico – imboccare la strada di una politica protezionista, ambiguamente stretta fra un ‘sovranismo’ orgoglioso e tentazioni xenofobe.
Che questo scenario non si proietti in un futuro molto lontano, ma ci parli già dell’oggi, diventa evidente, guardando al risultato uscito dalle urne il 25 febbraio. Certo è vero che è finita la stagione delle «due sinistre», perché la vecchia «sinistra radicale» – con la sconfitta della malriuscita operazione elettorale di Rivoluzione civile e la sostanziale irrilevanza di Sinistra Ecologia e Libertà – appare davvero uscita di scena, probabilmente in modo irrimediabile. Ma il risultato non è affatto un compattamento dell’unica sinistra rimasta sulla scena, perché quest’ultima risulta anzi indebolita, insidiata, persino scalzata da una forza come il Movimento 5 Stelle. Una forza indecifrabile, in cui si può vedere qualsiasi cosa e che si può interpretare in mille modi. Ma la cui fortuna, imprevedibile anche solo dodici mesi fa, è probabilmente solo il primo frutto della grande crisi che stiamo attraversando. Una crisi economica, sociale e politica che trascina con sé, insieme all’edificio europeo, una sinistra incapace di raccogliere la sfida di quella che Galli chiama la «quarta rivoluzione» novecentesca. Perché per molti versi – nonostante il ‘populismo’ di Grillo e il profilo del M5S rimangano ancora del tutto enigmatici, e aperti a mille possibili evoluzioni – il risultato delle elezioni di febbraio prefigura molto probabilmente la sagoma che assumeranno le rivolte dei prossimi anni, quantomeno nei paesi meridionali dell’Ue. Rivolte che effettivamente si collocano al di là di ciò che abbiamo finora chiamano ‘sinistra’ e ‘destra’, e che finiranno forse col dare un nuovo significato a questi termini. Ma in cui non è affatto escluso che ad avere la meglio siano proprio le tentazioni protezioniste, o persino xenofobe, semplicemente perché si tratta della soluzione all’apparenza più immediata. Con il rischio inevitabile che il Vecchio continente si incanali in una spirale di ritorsioni e chiusure. E dunque verso una crisi del processo di integrazione di cui non è neppure possibile immaginare le conseguenze di medio e lungo periodo.
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