di Alessandro Campi
La sindrome cinese che ha investito il mondo, in un crescendo che ormai sfiora la psicosi di massa, non è solo un’emergenza sanitaria globale . È un evento rivelatore della nostra condizione umana, delle nostre paure inconsce, dei nostri pregiudizi non dichiarati, delle nostre ipocrisie, del mondo al tempo stesso complesso e fragilissimo che abbiamo creato.
Già non si capisce, per partire dalle finte convinzioni dietro le quali spesso ci nascondiamo, che cosa esattamente c’impaurisce in questa vicenda. Temiamo per la borsa o per la vita? All’apparenza, siamo preoccupati per la nostra salute, messa a repentaglio da un virus che se non frenato potrebbe uccidere chissà quanti uomini sulla Terra. In realtà, ci terrorizzano i riflessi economici negativi che questa vicenda potrebbe avere e che in parte già sta procurando. Se il virus non fosse partito dalla Cina, motore pulsante dell’economia mondiale, ma da qualche sperduta regione africana, la nostra reazione sarebbe stata egualmente isterica?
Nulla di biasimevole, beninteso, in quest’atteggiamento: il benessere materiale è in fondo l’altra faccia di quello psico-fisico. D’altro canto, nel mondo globalizzato tutto si tiene per definizione: l’export del lusso e i consumi alimentari, il livello dell’occupazione e i flussi dell’informazione, l’organizzazione della sanità e la gestione del tempo libero, la stabilità dei regimi politici e il battito delle ali di una farfalla. Il problema è semmai l’ipocrisia un po’ immorale di chi paventa chissà quale spaventosa ecatombe a venire senza troppo preoccuparsi di quelle che accadono ordinariamente nel mondo. Sono pochi o molti, e dovrebbero turbare le coscienze, anche se non incidono negativamente sul nostro stile di stile, i cinquecentomila essere umani che muoiono ogni anno d’una malattia sulla carta facilmente curabile qual è la malaria?
Una vicenda rivelatrice, dicevamo. Ma di cosa esattamente? Ad esempio delle fobie ancestrali che, per quanto il mondo sia progredito, ci portiamo dietro come umanità e che non riusciamo a superare. Le pandemie sono state una costante nella storia del mondo. Le pesti in Europa hanno cambiato la demografia, le città e lo stesso paesaggio del continente. La nostra memoria profonda, individuale e collettiva, è rimasta impregnata da questa grande paura, pronta a riaccendersi al minimo segnale d’una possibile nuova forma d’infezione e contagio. Sono atavismi mentali, riflessi comportamentali involontari che potremmo forse applicare anche ad altri aspetti della nostra vita sociale. Se oggi ci creano imbarazzo e fastidio gli immigrati che chiedono soldi ai lati delle nostre strade, chissà, forse dipende anche dal ricordo inconsapevole di quando le città europee pullulavano di diseredati, accattoni, straccioni e mendicanti. Sono i fantasmi di un passato nemmeno troppo remoto che non mai smesso di perseguitarci e di agitare i nostri sonni di cittadini d’un mondo prospero e tecnologicamente avanzato.
Ma non c’è solo la memoria dolorosa di un passato mai rimosso con cui fare i conti. Dobbiamo considerare anche la nostra immagine del futuro, profondamente intrisa, più che di speranze, di un catastrofismo (con venature apocalittiche di matrice religiosa) che il cinema, soprattutto quello hollywoodiano, ha coltivato a piene mani e fatto diventare ai nostri occhi, non solo plausibile, ma attendibile. La cosa paradossale, in questi giorni, è che tutto quel che potrebbe capitare di spaventevole lo abbiamo già vissuto guardando il grande schermo, sino ad introiettarlo come una possibilità concreta e prossima. Non c’è scenario distruttivo e apocalittico, implicante lo sterminio dell’umanità vuoi per un virus letale vuoi per qualche invasione aliena, che non sia stato già partorito dalla mente di qualche brillante sceneggiatore. Il cinema è spettacolo, d’accordo, dunque divertimento. Ma è anche un potente costruttore di fantasie sociali che radicandosi nel sentimento collettivo acquistano inevitabilmente la forma della realtà. Ecco, sta accadendo davvero, ci viene da pensare in questi giorni.
Durante i quali un’altra fobia, anch’essa profonda e segreta, è andata emergendo: quella nei confronti di un potere (politico) che non riusciamo a controllare e che tendiamo a percepire, anche quando lo consideriamo legittimo o semplicemente necessario, come una minaccia sempre incombente. Ad esso abbiamo ceduto la nostra sovranità di individui in cambio di protezione e sicurezza, ma in realtà non abbiamo mai smesso di temerlo e non gli abbiamo mai accordato la nostra piena fiducia. Anche questa volta si è sostenuto che il contagio potrebbe essere partito – per un incidente o, peggio, per la criminale volontà di qualcuno – da un laboratorio militare. Lo si era già detto per l’Aids e per altre emergenze. Il timore è per un potere che opera nell’ombra e fuori da ogni controllo, che persegue obiettivi che ci vengono colpevolmente nascosti. Un potere che quando sbaglia occulta la verità o prova a negarla, senza preoccuparsi del destino dei suoi stessi cittadini. Lo pensiamo dell’America democratica, figuriamoci della Cina rimasta un classico dispotismo asiatico.
La diffidenza per il potere va da sé si porta dietro un altro dei nostri costrutti mentali più pervicaci, pronto ad esplodere soprattutto nei momenti in cui la storia accelera o la cronaca impazzisce: il complottismo, l’idea di una verità ufficiale che come tale è sempre falsa e di cause apparenti dietro le quali bisogna ricercare quelle effettive. Cosa ci stanno nascondendo di questo virus di cui tutti parlano ma di cui solo pochi conoscono la vera origine? Siamo forse in presenza – si è detto anche questo – di una guerra per l’egemonia sul mondo condotta con armi indirette di sterminio del nemico? Siamo alle prese con un esperimento di condizionamento sociale e di manipolazione mentale su scala planetaria? Qualcuno ha deciso di liberarsi dei cinesi con un virus non riuscendo altrimenti a frenarne l’espansione politica, economica e demografica? Quando parte per la tangente, la spirale delirante del complottismo non si ferma più.
L’ulteriore rivelazione, che in questa sede vale anche come necessaria considerazione autocritica, riguarda poi il meccanismo dell’informazione globale, che sembra davvero sfuggito di mano. Dove finisce il racconto giornalistico di un’emergenza e dove comincia la costruzione mediatica di un allarme, la cui soglia peraltro si tende a superare continuamente? Il confine francamente sfugge. In questo contesto, finisce per suonare a dir poco ironico l’invito ai cittadini a non farsi prendere dal panico. Mentre suona offensiva l’idea che le preoccupazioni popolari siano un frutto del pregiudizio e dell’ignoranza dilaganti. Come si può chiedere alle persone di non perdere la calma quando le si bombarda (come accade da giorni) con notizie e informazioni allarmistiche?
Un’ulteriore considerazione stimolata dalla cronaca di questi giorni (e che riguarda soprattutto la sfera politico-istituzionale) è che lo stato d’emergenza, ormai continuamente invocato, sta diventando la condizione normale di governo degli uomini. S’era già capito negli anni della lotta contro il terrorismo (allarme planetario divenuto permanente). Venuta meno la distinzione tra normalità ed eccezione, la politica non è più ricerca dell’armonia sociale, del benessere, della libertà o della giustizia, ma reazione alla paura: l’unico sentimento che ormai orienta la lotta tra partiti e muove le decisioni e le scelte di chi occupa il vertice del potere. Una corsa a lucrare sulla paura che è ideologicamente trasversale: qual è la differenza tra la destra che soffia sull’invasione degli immigrati e la sinistra che paventa la catastrofe climatica?
Per concludere, questa vicenda appare soprattutto rivelatrice del nostro senso di precarietà, fattosi paradossalmente sempre più grande a misura dei progressi che l’umanità ha registrato. Nessuno osa dirlo apertamente, ma circola sempre più il convincimento che l’universo tecnico-scientifico costruito dall’uomo, per quanto grandioso, abbia un che di fragile e reversibile. Viviamo all’interno di un sistema sociale tanto sofisticato quanto vulnerabile. Ci accompagna il timore, mentre godiamo i frutti di un benessere mai visto, che un’improvvisa catastrofe possa riportarci all’età della pietra. Fra qualche settimana o mese probabilmente il coronavirus sarà poco più di uno spiacevole ricordo, come la mucca pazza, l’aviaria, la Sars e la peste suina (ma mettiamoci anche il baco del millennio e le scorie atomiche che il vento soffiava da Chernobyl), ma ci resterà il sospetto che la fine del mondo in fondo ce la meritiamo, e che essa prima o poi inesorabilmente arriverà.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 3 febbraio 2020
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