di Alessandro Campi*
In questi anni di dibattiti e polemiche sul populismo, se ne sono individuate le cause immediate nelle direzioni più diverse: la durezza e durata della crisi economica, la disonestà dei politici, il malfunzionamento delle istituzioni, la scomparsa dei partiti e delle ideologie tradizionali, l’eccesso di promesse elettorali che i governi non riescono a soddisfare o l’avvento di forme di comunicazione che favoriscono la demagogia, i messaggi semplificati e la personalizzazione della lotta politica.
Ma forse c’è una causa remota e profonda del populismo che andrebbe indagata con maggiore attenzione e che ha a che fare col fatto che viviamo, per così dire, nella società dell’allarme permanente. La nostra vita individuale e collettiva, complice un sistema dell’informazione in grado di amplificare su scala globale anche la più insignificante delle notizie, è come se fosse esposta a continue minacce e a segnali di pericolo costanti. Si tratti dell’aviaria, della mucca pazza, dei terremoti, del virus ebola, delle menomazioni prodotte dai vaccini, dell’innalzamento degli oceani, degli incendi, dello spionaggio informatico, dell’estate troppo calda, dell’inverno troppo freddo, degli ogm e delle adulterazioni alimentari, dei crolli di Borsa, dell’aids, del baco del millennio, dell’emergenza idrica, della febbre suina, del terrorismo, del riscaldamento globale, dell’immigrazione selvaggia – semplicemente non abbiamo tregua, viviamo in uno stato di continua fibrillazione, che mina la nostra serenità e addensa sul nostro presente e sul nostro immediato futuro paure sempre nuove e sempre più grandi. Col rischio anche di risvegliare paure ancestrali di pandemie e catastrofi che sembravano appartenere al passato dell’umanità.
Spesso si tratta di minacce o problemi reali, che andrebbero però affrontati non in una chiave emergenziale o considerati urgenti solo perché una campagna di stampa ce li fa considerare tali per il tempo che essa dura. Altre volte si tratta di pericoli enfatizzati in modo persino irresponsabile, per semplice gusto della notizia eclatante o perché qualcuno ha effettivamente interesse a speculare su certe paure. Ma non fa differenza. Conta l’effetto sociale – e alla fine anche politico – che questa condizione di continuo allarme, emotivamente insostenibile, alla fine produce.
Il circolo in cui ci troviamo è di quelli che si definiscono viziosi. Il senso di spavento genera apprensione, ansia e, nelle forme più estreme, angoscia. Ne nasce un senso di insicurezza che ci spinge a chiedere alla politica e a chi ci governa soluzioni che si vorrebbero facili, immediate e risolutive e che in realtà sono difficili, come i problemi che si dovrebbero affrontare, e inevitabilmente lente (oltre che costose).
Il risultato – quando si chiede troppo e si ottiene poco o quando si ha l’impressione che chi comanda non sappia bene cosa fare – è un risentimento o una forma di frustrazione che, oltre ad aggravare lo stato di agitazione in cui ci troviamo ormai in permanenza, accentua il convincimento di aver messo il nostro destino collettivo nelle mani di incompetenti e incapaci.
Dei politici, infatti, ormai si dice sempre meno che siano dei ladri e si pensa sempre più spesso che non servano a nulla, come le istituzioni che rappresentano e nei confronti delle quali la sfiducia non fa crescere. Un tempo il potere faceva paura perché pervasivo e onnipotente, oggi perché appare irresoluto, vacuo e impotente.
Il populismo odierno gioca molto su questa condizione psicologica. Da un lato alimentando la paranoia complottista, additando cioè per ogni problema colpevoli spesso di comodo o immaginari. Dall’altro fornendo a questi stessi problemi ricette semplici e immediate che finiscono per essere credibili solo perché quelle che vengono dal potere ufficiale sono considerate false, inefficaci, di facciata o dettate da chissà quale recondito interesse.
Insomma, la società dell’allarme genera timori e paure irrazionali che a loro volta accrescono la sfiducia, la disaffezione e lo scetticismo nei confronti di una politica che, agli occhi dei cittadini, non riesce più ad essere rassicurante, protettiva e all’altezza dei problemi che dovrebbe risolvere. Ciò vale per la politica, ormai sempre più screditata, ma persino della scienza oggi non ci si fida più.
Se ciò è vero il populismo non è solo l’espressione di una protesta politica momentanea, il frutto della disoccupazione o una risposta rabbiosa alla corruzione dilagante. Ma il frutto di uno stato d’animo e di un umore collettivo. Il risultato cioè della struttura ansiogena, allarmistica ed emotivamente instabile delle nostre società. Questo probabilmente spiega il suo dilagare nelle forme ideologicamente più diverse, ma spiega anche perché con esso dovremo ahimè convivere a lungo.
* Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ del 26 luglio 2017
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