di Alessandro Campi

Proviamo a metterci nei panni di un direttore di giornale, che tutte le mattine, ormai da giorni, si trova costretto ad ospitare in apertura paginate intere di inchieste, resoconti e interviste non sulla crisi economica che incalza e sulle ricette per affrontarla, sui problemi e le angosce degli italiani, ma sulle ragazze e le festicciole di Berlusconi, sugli infiniti guai giudiziari di quest’ultimo, sulle sue improbabili frequentazioni politico-mondane, sulle intercettazioni che già circolano nelle redazioni a decine e sulle migliaia che (forse) presto arriveranno a gettare altro fango sul nostro Presidente del Consiglio e, va da sé, sull’intero Paese.

Proviamo altresì a metterci nei panni di un lettore, e dunque di un italiano qualunque, che per un giorno almeno vorrebbe distrarsi e non pensare a cose tristi, o forse leggere qualche parola di speranza sul futuro che l’aspetta, e si trova invece sbattute in faccia notizie che hanno ormai superato il limite di ogni possibile decenza, e commenti che della politica, degli uomini di potere e degli affari pubblici restituiscono un’immagine più che ridicola o grottesca, bensì miserevole e degradante, un misto di tracotanza e volgarità.

Viviamo una condizione oggettivamente umiliante. Di chi sia la colpa – se della magistratura irrimediabilmente uscita dai suoi ranghi, dei media che in fondo lucrano guadagni su quest’accumulo di bassezze o d’una classe politica divenuta in certe sue espressioni a dir poco impresentabile – a questo punto nemmeno importa più. Si sa solo che nelle ultime settimane abbiamo probabilmente raggiunto la soglia dell’umana sopportazione. Se fino a qualche tempo fa, da una parte e dall’altra della barricata politica, ci si poteva civilmente indignare, ovviamente per opposte ragioni, o magari persino divertire, nell’apprendere particolari piccanti sul nostro incontenibile Cavaliere, nel leggere il resoconto delle telefonate scabrose intercorse tra amanti e affaristi d’ogni risma, oggi il disgusto giunto all’acme, per di più alimentato dalla paura della crisi, rende tutto ciò insopportabile. Un passo oltre e per sfuggire alla saturazione non resterà che una crisi di rigetto.

Se ne può uscire, col minimo del danno per tutti, per una via ragionevolmente politica, prima che il quadro degeneri e che dalla nausea collettiva si passi alla protesta violenta o ad un’apatia talmente generalizzata da minare le basi della convivenza democratica?

Si dice che Berlusconi dovrebbe farsi volontariamente da parte, per il bene dell’Italia e in fondo nel suo stesso interesse, se non vuole essere ricordato dai posteri solo come un satrapo finito travolto dai suoi stessi vizi e dalle sue imperdonabili debolezze. Ma si aggiunge subito dopo che – col carattere orgoglioso che si ritrova, e con la paura che ha di perdere non solo il potere e il buon nome, ma il patrimonio e la libertà personale – non lo farà mai.

Le altre strade sin qui adombrate che potrebbero determinarne la fine politica – la spallata giudiziaria, l’acuirsi drammatico della crisi economica, il nascere per comune volontà delle parti di un governo di salute pubblica – risultano a loro volta impraticabili, pericolose e vacue. La prima è un mito ventennale contraddetto dall’esperienza: dalle inchieste della magistratura Berlusconi è sempre uscito indenne. La seconda subordina l’interesse di parte a quello nazionale: come ci si può augurare lo sfascio dell’Italia solo in odio al Cavaliere? La terza presuppone una cultura istituzionale, un senso del bene collettivo, che abbiamo smarrito: il bipolarismo della Seconda Repubblica si è alimentato di divisioni e contrapposizioni talmente nette da rendere oggi impossibile larghe intese o forme di collaborazione tra maggioranza e opposizione che abbiamo deciso di liquidare, ormai da anni, con l’orrendo neologismo “inciucio”.

Ma visto che qualcosa dovrà pure accadere, prima che si realizzi il peggio, prima ad esempio che la Lega mandi all’aria lei stessa il governo scegliendo di sbandierare nuovamente il mito della secessione della Padania e di riconvertirsi all’antiberlusconismo come ai tempi d’oro, conviene forse sperare in una soluzione interna all’attuale maggioranza, in particolare in un gesto di resipiscenza politica e di responsabilità da parte del gruppo dirigente del Pdl. Sembrerebbe un’ipotesi stellare, ma forse è l’unica realistica e praticabile, oltre ad essere, a conti fatti, la meno traumatica e umiliante per lo stesso Berlusconi.

Sinora la linea ufficiale del mondo berlusconiano è consistita nel difendere il proprio leader a spada tratta, persino a dispetto dell’evidenza, per spirito di fedeltà e senso di riconoscenza. L’ala più intransigente di quel mondo è misticamente convinta che una volta uscito di scena il Cavaliere, in qualunque forma, non ci sarà salvezza per nessuno tra coloro che lo hanno sin qui sostenuto. In realtà, potrebbe essere vero il contrario. La sopravvivenza del Pdl e del suo elettorato potrebbe dipendere, più che da una resistenza ad oltranza, da un gesto di discontinuità divenuto per molti versi ineludibile. Basterebbe che i malumori diffusi tra parlamentari e dirigenti di partito, le preoccupazioni e le critiche che hanno cominciato ad affiorare negli ultimi giorni tra coloro che non hanno alcuna intenzione di sacrificare un’intera esperienza politica (e le proprie personali ambizioni) alla testarda intransigenza di un uomo che si ritiene intangibile e insostituibile, si coagulassero intorno ad una proposta politica semplice e chiara indirizzato proprio a Berlusconi: lasciare la guida del governo, indossare i panni del padre nobile dopo aver vestito per due decenni quello del capo assoluto, per salvare se stesso, l’Italia e la sua creatura politica.

A dispetto di un’opinione diffusa, nel Pdl esistono personalità e forze organizzate, con un minimo di radicamento sociale, che potrebbero permettersi – in questo delicato frangente – di far sentire la propria voce in modo politicamente significativo. Quello che nell’immediato sembrerebbe un atto di lesa maestà, ben presto potrebbe rivelarsi la soluzione più lineare e meno dirompente.

Il Pdl, muovendosi in autonomia rispetto al suo stesso fondatore, dimostrerebbe finalmente di essere un attore politico serio. Berlusconi, passando la mano ai suoi stessi uomini, non si vedrebbe costretto a cedere alle pressioni esterne (magistratura o mercati internazionali) o agli insulti della piazza. Per la maggioranza, dopo il passo indietro del Cavaliere, si aprirebbero spazi di manovra parlamentare che potrebbero portare alla nascita di un più solido esecutivo e rendere meno accidentato il cammino sino al termine della legislatura. L’Italia e gli italiani, dal canto loro, tirerebbero un sospiro di sollievo e non vedrebbero più il proprio nome associato nel mondo a scandali e storie boccaccesche. La magistratura farebbe il suo corso, nelle inchieste sul Cavaliere, senza che la si possa più accusare di voler far cadere il governo. Gli ultras di tutti gli schieramenti politici si darebbero finalmente una calmata. Si aprirebbe una stagione di ricambio nella classe politica di governo dopo anni di immobilismo.

La domanda decisiva a questo punto è la seguente: gli uomini che stanno al vertice del Pdl, oltre che nutrire in privato timori inconfessabili sulle sorti dell’Italia e legittime preoccupazioni sul proprio futuro, hanno anche un po’ di tempra politica, di carattere e di forza di volontà, quel tanto sufficiente a convincere Berlusconi che la sua avventura è finita per davvero e che per lui è giunto il tempo di consegnarsi al giudizio della storia?