di Danilo Breschi

Parlare di rivoluzione è sempre affascinante se si ha meno di trent’anni, anche se la carta d’identità ti smentisce e magari ne hai settanta, o se non hai niente da perdere (milionario o nullatenente) o se ti animano pulsioni (auto)distruttive, o se hai invece animo d’artista, profeta, ecc. ecc. Parlare di rivoluzione in Italia significa soltanto dire cosa falsa e inutile.

A proposito della Babele che sta incombendo sull’Italia con la campagna elettorale 2013, pare opportuno fare qualche precisazione anche in campo linguistico e concettuale. Forse non proprio di “rivoluzione” sentiremo parlare, nemmeno da parte di Grillo o del Movimento Arancione di De Magistris e Ingroia, ma certamente da quasi ogni parte si prometteranno mari e monti (?) e si preannunceranno grandi svolte se questo o quel partito, questo o quello schieramento, andranno in Parlamento (obiettivo massimo) o addirittura al governo (obiettivo minimo, che nessuno da solo ci tiene poi così tanto ad assumerne la guida, dato il contesto economico internazionale).

Scriveva  nel lontano 1797, a quasi dieci anni dallo scoppio della Rivoluzione francese e a tre dalla fine del “Terrore” giacobino: “Perché le istituzioni di un popolo siano stabili, devono essere al livello delle sue idee. Allora non si verificheranno mai rivoluzioni nel senso proprio del termine. Ci potranno essere dei conflitti, dei rovesciamenti individuali, uomini privati del potere da altri uomini, partiti sconfitti da altri partiti; ma finché idee e istituzioni sono allo stesso livello, le istituzioni restano salde”. E aggiungeva: “Quando la concordanza tra istituzioni e idee viene distrutta, le rivoluzioni sono inevitabili. Esse tendono, infatti, a ristabilire questa concordanza. Questo non è sempre lo scopo dei rivoluzionari, ma è sempre la tendenza delle rivoluzioni”.

Ebbene, se la teoria dell’allora trentenne Constant è giusta, l’Italia può stare al sicuro. E lo dico solo in parte con ironia, perché di quel tipo di rivoluzioni non ne abbiamo, o dovremmo avere, bisogno. Basterebbe, ma si fa per dire, una robusta dose di riformismo radicale. Ma se penso che quel di cui più abbisogniamo è una fase costituente, allora mi viene da pensare che per una qualche “rivoluzioncina” si dovrà, prima o poi, pur passare. Non so. Certo è che le derive giacobine me le risparmierei volentieri, e il 90% della popolazione italiana credo condividerebbe questo mio auspicio. Però, o qui si rimette mano al patto costituente, o non cambierà nulla, nella sostanza. Nella forma, tantissimo.

Per una nuova fase costituente ci vogliono idee, quelle che rendono inevitabili le rivoluzioni, dal momento che le istituzioni sono ancora riempite ed animate da altri principi, idee vecchie, oramai logore ed esaurite. Constant docet.

Se però fosse davvero valida la teoria di Constant, allora c’è da starne certi: l’Italia non è matura per alcuna rivoluzione. Tutti a casa, dunque. Se ciò significasse solo che vi è concordanza tra idee e istituzioni, qualcuno, fermandosi a questo primo significato, potrebbe anche pensare che tutto va per il meglio, e l’Italia ha raggiunto il sano equilibrio e la capacità omeostatica di una democrazia liberale e costituzionale che avvicenda pacificamente maggioranza e opposizione, perché consente alle minoranze di ieri di essere le maggioranze di oggi o di domani. Il problema è però capire su che cosa si concorda e quali siano queste idee che la società esprime e le istituzioni incarnano e solidificano, rendendole pratica quotidiana lecita e legittimante.

Il sospetto, più volte ribadito in questa sede, è che nulla cambi, e cambierà, perché nulla, in fondo, ancor si vuol che cambi. Questa volontà di conservazione riguarda senz’altro molte delle attuali classi dirigenti italiane, autoreferenziali e clientelari, che si rinnovano solo per cooptazione e raccomandazione ma aborrono qualsiasi circolazione paretiana delle élites. Il sistema feudale nel quale l’Italia ormai versa a più livelli, favorendo la deferenza, il vassallaggio e la prepotenza baronale, con quel tanto di infingardo e peloso che lo Stato borbonico e lo Stato pontificio hanno lasciato in eredità, ha talmente avviluppato tutti noi che il sistema si regge ancora abbastanza bene in piedi. Ogni tanto barcolla vistosamente, ma resta elastico e gommoso al punto giusto, e la coincidenza tra mentalità diffuse e prevalenti nella cosiddetta società civile, da una parte, e vertici e autorità costituite, dall’altra, funge da durevole mastice. Niente resta che, in fondo, non sia intimamente voluto. Se la Seconda Repubblica non è mai nata, è perché abbiamo interiorizzato vizi e difetti della Prima fino farne nostra carne e nostro sangue.

Le prossime elezioni potrebbero confermarlo. Se le formazioni che si presenteranno con una campagna elettorale, con discorsi e proposte all’insegna del populismo (poco importa, se urlato o sussurrato, velato o sventolato) raccoglieranno ampi consensi e siederanno ricche di loro rappresentanti in Parlamento, allora questa mia modesta previsione sarà convalidata. Altrimenti, vorrà dire che qualche spiraglio per il meglio si è riaperto. Ben venga.

Purtroppo gli antichi già lo sapevano e, più di recente, Nicolás Gómez Dávila da Bogotà ce lo ha ricordato con frase fulminante: “il popolo non elegge chi lo cura, ma chi lo droga”. Spero solo che per le prossime elezioni non valga pure quest’altro aforisma del perfido e sublime moralista colombiano: “nichilismo, cinismo o stupidità: queste sono le alternative politiche del nostro tempo”.