di Angelica Stramazzi
La partecipazione di Silvio Berlusconi alla trasmissione “Servizio Pubblico” condotta da Michele Santoro e andata in onda in prima serata lo scorso giovedì 10 gennaio su La7, ha avuto – com’era prevedibile – una vasta eco (anche e soprattutto mediatica), riconducibile sostanzialmente al fatto che il Cavaliere, impegnato in prima persona in una campagna elettorale in cui si pensava che il ruolo di primo attore dovesse toccare al segretario Alfano, ha messo da parte la sua vis polemica (tornata a galla nell’ultima parte della puntata) per sottoporsi alle domande – chissà poi quanto spontanee e non già concordate in precedenza – di coloro che, da circa vent’anni, sono considerati, a torto o a ragione, i principali detrattori (ma anche inconsapevoli sostenitori) dell’ex Presidente del Consiglio.
Tralasciando tutto ciò che è stato detto e che potrebbe essere sottolineato circa la spettacolarizzazione della politica, molto ben riassunta nella trasmissione sovra citata, occorre anzitutto rilevare un aspetto che, per coloro che sono abituati a leggere la contesa ed il confronto politico in maniera analitica, risulta senza dubbio di importante valore. Nell’arena di “Servizio Pubblico”, Berlusconi, oltre a ripetere ininterrottamente quelli che saranno – e di fatto sono già – i cavalli di battaglia della sua campagna elettorale – abolizione dell’Imu, riduzione della pressione fiscale su famiglie ed imprese, incentivi alle aziende che assumono giovani – ha riaffermato con forza la necessità di preservare quel timido accenno di assetto bipolare che si era venuto a costituire in maniera maggiormente compiuta e delineata nel 2008; ma che, già dal 1994, stava tentando di strutturarsi all’interno di un contesto del tutto nuovo, venuto alla luce dopo la fine della Prima Repubblica. Non a caso il Cavaliere ha più volte invitato gli elettori/spettatori sintonizzati su La7 a votare o per il centrodestra o per la coalizione di centrosinistra, suggerendo loro di abbandonare anche le più remote volontà di indirizzare il consenso sui cosiddetti “partitini”: quelle formazioni minori che, pur non raggiungendo percentuali di gratitudine elevate, concorrono comunque alla costituzione delle future coalizioni di governo, fino ad arrivare a condizionarne – in non pochi casi – l’azione e l’attività programmatica. Del resto – questo è stato il pensiero espresso dallo stesso Berlusconi – in tutte le grandi democrazie europee i voti si concentrano sulle due maggiori famiglie partitiche presenti; e la dispersione del consenso è sì contemplata ed ammessa, ma sicuramente in misura minore rispetto a quanto accade (ancora) nel nostro Paese.
Se dunque non ci sarà convergenza o sul Pd o sul Pdl, l’Italia resterà, sempre volendo riassumere il senso di una parte del discorso televisivo del Cavaliere, una nazione ingovernabile. Per questo motivo, e per evitare ulteriori stalli governativi, il partito che uscirà vincitore dalle urne «dovrà utilizzare la sua maggioranza per cambiare la Costituzione». Ecco quindi che torna d’attualità – sebbene l’esigenza di una riforma dell’impalcatura istituzionale sia rimasta (quasi) sempre tra le priorità della nostra classe dirigente – la necessità di modificare un sistema che non è più funzionale alle richieste di un Paese che evolve naturalmente con il trascorrere del tempo. E’ sempre bene ricordare – sebbene molti lo dimentichino assai di frequente – che la politica svolge appieno il suo ruolo se riesce a porsi in sintonia con i bisogni percepiti da coloro che ha il compiuto di rappresentare; nel caso contrario, finisce per essere mera annunciazione di proposte e provvedimenti che, non trovando riscontro nella realtà, non potranno mai esplicare di fatto gli effetti per i quali sono stati pensati e quindi articolati.
Se dunque le intenzioni del Cavaliere – non solo le sue, per la verità – sono più che legittime e andrebbero non solo strenuamente difese ma soprattutto concretizzate, vale la pena sottolineare, ai fini della conduzione di un’analisi ragionevole e non già campata in aria, le enormi difficoltà nel far sì che i (buoni) propositi che dovevano inaugurare la Seconda Repubblica – semplificazione bipolare e mutamento dell’impalcatura istituzionale – possano di fatto avviare la stagione della Terza, di Repubblica. Uno dei principali ostacoli nel compimento di un simile miracolo – perché, diciamolo, di miracolo vero e proprio si tratta, visti i mille impedimenti e cavilli burocratici che spuntano in ogni dove non appena si decide di riformare qualcosa nel nostro Paese – è rappresentato dal fatto che le condizioni che permisero, subito dopo Tangentopoli e Mani Pulite, il profilarsi di un (timido) assetto bipolare, sono attualmente mutate (e non di poco): il quadro politico appare nuovamente frammentato; e le forze in campo non sono più due, ma addirittura tre o quattro. Manca, in buona sostanza, la base su cui poter prospettare (oltre che progettare) un mutamento sostanziale della nostra ingegneria costituzionale ed istituzionale, non potendosi dare una situazione di confronto bipolare in un contesto in cui si esprimono – a volte con non poca forza – più voci, differenti identità e molteplici prospettive di cambiamento. E stavolta non si tratta della somma algebrica dei tanti partitini della zero virgola qualcosa: ci sono anche quelli, è vero; ed esprimono tutti una legittima offerta democratica. A (ri)emergere è un quadro già sperimentato, un puzzle composto in precedenza e che, stando ai fatti, si ripropone ora. Forse che il Paese non era ancora pronto per la “svolta” bipolare? O piuttosto gli attori che l’hanno incarnata ne hanno tradito i presupposti? Sta di fatto che siamo tornati indietro: sta per iniziare la Terza Repubblica ma le condizioni attuali ci riconducono direttamente alla Prima.