di Matteo Chiavarone
Tempo fa mi ritrovai a scrivere un articolo dal titolo Letteratura e identità nazionale cercando di abbozzare delle linee guida per una ricerca più approfondita sull’argomento.
In questi giorni mi sono trovato tra le mani un volume, La trappola e la nudità (Perrone, 2012) di Walter Mauro ed Elena Clementelli, che mi permette di allargare il discorso al rapporto tra la scrittura e il potere, mettendo in risalto non tanto il prodotto-libro quanto colui che lo rende possibile: lo scrittore.
Sì perché non sono i libri per una volta a parlare ma gli stessi autori. Domande e risposte si moltiplicano fino a formare un mosaico di “creature letterarie” che, con congenita sprovvedutezza, hanno tracciato linee indelebili sulla superficie solidissima della Storia.
In questa cosmografia letteraria – da Heinrich Böll a Jean-Paul Sartre, da Philip Roth ad Eugenio Montale, da Rafael Alberti a Pablo Neruda, passando per Mauriac, Asturias, Gombrowicz e Gabriel García Márquez (peccato per l’assenza di Nicolás Gómez Dávila) – , riordinata in un progetto di interviste edito nel 1974 e solo oggi ripubblicato, si tenta di dare “voce” al Novecento provando a slegare il nodo doloroso che unisce letteratura e potere che sia esso politico, domestico o religioso.
L’utopia della “arte per l’arte” si scontra (e si dissolve) nell’irrinunciabile rapporto con la realtà, nello sforzo dell’artista di essere ad ogni costo se stesso, di fronte agli altri ma, soprattutto, di fronte al potere.
Incalzato sull’argomento, un uomo come Gombrowicz, scrittore troppo facilmente dimenticato negli scaffali delle librerie italiane, inizia a parlare della “sua” Polonia tesa a “rincorrere continuamente l’Europa”. La libertà espressiva che fuoriesce dai suoi romanzi percorre il “sentiero del sogno” fino a rincorrere l’opera che sfugge come un “cavallo imbizzarrito”. La via di salvezza è anarchica, intesa nella sua forma creativa che diventa “ironia” e gioco dell’assurdo. Una via da intraprendere fino a che la realtà “ti prende per la giacca e ti impone di tornare fra gli uomini”.
In fondo, come ci ricorda Márquez all’indomani della morte di Allende e della tragedia cilena, “non è possibile cambiare la forma del mondo senza provocare terremoti della terra… Il Cile non era un ‘caso speciale’, anzi era il paese latino-americano più vulnerabile, perché dominato dal romanticismo della legalità”. C’è la possibilità di costruire un’alternativa sociale perché la speranza è l’ultima a morire: “adesso il Cile s’è svegliato, e io credo che si sia svegliato per sempre”.
Dalla Polonia, al Cile, dal Cile agli Stati Uniti. Qui la voce di Roth sottolinea un rapporto col potere già delineato e precisato dal rapporto col padre, con la famiglia. È un “gran crogiolo ribollente di folle fermentazione, entro cui l’individuo lotta tenacemente in una sorta di vocazione passiva alla sconfitta”; è, ancora una volta, “l’ebreo che ricerca la propria carta di riconoscimento e si ritrova a camminare da solo lungo i muri di una città ostile, strisciando a filo della parete metallica di un carcere gigantesco, una specie di Sing Sing senza scampo né luce, in cui dire “va bene” è un obbligo al quale non ci si può sottrarre, […] una forma di inevitabile e predestinata resa alla propria coscienza, alla stessa capacità di capire”.
Si viaggia da uno scrittore all’altro, sotto una musica leggera che, a pensarci bene, sembra quel jazz che Walter Mauro ha da sempre studiato e su cui ha scritto moltissimo (Storia del Jazz, Il blues e l’America, Jazz e universo negro, Miles & Juliette).
Di fronte a noi ci appare Moravia ma dietro a lui ci sono molteplici ombre che gli danzano intorno: Pasolini, Fortini, Pavese, Vittorini. E poi ancora: Morante, Maraini, Savinio, Siciliano. Una lista lunghissima di intellettuali italiani di ieri e di oggi.
Si parla de Gli indifferenti, si discute sulla lotta di classe (c’è stata? chi sono i vincitori? chi i vinti?). Il problema politico diventa letterario anche se “il rapporto fra letteratura e realtà è molto indiretto, non è poi così semplice come si direbbe”. È un Moravia che cerca risposte nel classicismo e, anche se c’è stato, con la Ronda, un vero e proprio “appello all’ordine”, lui è venuto molto dopo.
Le finestre che si aprono una ad una sembrano scorgere ad un orizzonte che ci rimanda a Max Weber e ai “tre tipi puri” del potere legittimo o razionale, tradizionale e carismatico in una interconnessione tra l’uomo, in questo caso lo scrittore, e la realtà.
Il problema, che si pone in termini di razionalità, ci consente di liberare la discussione da tutte le forme di potere, fascismo e nazismo su tutte, che fondano la propria dottrina sull’irrazionale.
Il potere come forma al tempo stesso invisibile e “palpabile”. Come Carlo Levi in cui il “trauma del potere” si insinua molto presto, ai tempi della giovinezza torinese e dell’amicizia con Gobetti, quindi ancor prima della lotta al fascismo. E continua scandendo le scelte di una vita: l’invito a trasferirsi dal Piemonte al “profondo” Sud, la stessa realtà che scorgeva negli occhi di Gramsci e poi è arrivata nei suoi e in quelli di Pasolini. L’incontro col mondo contadino e con il “potere” della terra, quella terra che ha bisogno di sangue e umori per nutrirsi e per partecipare all’eterno ciclo vitale di vita, morte e rinascita.
Perché il potere non è solo tirannico: è il potere familiare di Montale che nasce perché “l’uomo ha pochissimo desiderio di essere libero e invece si parla sempre di libertà”.
Quello che esce da questi autoritratti sviscerati sotto forma di interviste, nel diabolico gioco della “domanda e risposta”, si traducono non nel senso di “obbligata rivolta” ma, semmai, come un fuoco interiore, alimentato dall’urgenza della parola come forza rivelatrice e, ancora una volta, molti anni dopo, come l’unica vera forza rivoluzionaria.
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