di Alessandro Campi

untitledCome, quando e perché è caduto il secondo governo Prodi, il cinquantanovesimo della Repubblica italiana? Se gli storici del futuro prenderanno sul serio – come è possibile – la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Tribunale di Napoli, quella che ha condannato Silvio Berlusconi (insieme a Valter Lavitola) per aver “comprato” il senatore Sergio De Gregorio, nei loro manuali scriveranno che è stato proprio quest’ultimo – con la sua decisione di passare dal centrodestra al centrosinistra per vile danaro – l’artefice e il responsabile di quella caduta. Peccato solo che non sia vero: non che De Gregorio non abbia preso soldi dal Cavaliere o che non abbia cambiato di casacca, ma che sia dipesa da lui l’infausta sorte del secondo esecutivo guidato dal professore bolognese è semplicemente falso.

In attesa che alla storiella credano gli storici, ad essa ha prontamente creduto – ma si capisce, dal suo punto di vista – il medesimo Prodi: senza quell’episodio di corruzione, ha detto, “sarei ancora presidente del Consiglio”, forse dimentico del fatto che le legislature durano comunque cinque anni. E se non fosse stato sfiduciato nel 2008 – tra un po’ racconterò come, perché e da chi – sarebbe andato a casa egualmente nel 2011. Ma lui evidentemente pensa che sarebbe stato trionfalmente rieletto anche per i cinque anni successivi. Strano comunque che Prodi in persona non ricordi come realmente siano andate le cose quando sedeva per la seconda volta a Palazzo Chigi: due anni per lui politicamente infernali, il che forse potrebbe spiegare la cattiva memoria che ne ha serbato.

Ma alla storiella – e questo è più grave – ha creduto quasi all’unanimità anche la stampa italiana, con i suoi principali editorialisti schierati nel dire quale abominio per la democrazia sia stato quel trasmigrare di parlamentari dalla sinistra alla destra coi soldi di Berlusconi. Anche i giornalisti, appresa la sentenza, si sono convinti che fu il fedifrago De Gregorio il colpevole dell’interruzione traumatica della legislatura: quella che, ricordiamolo, era cominciata con la vittoria alle urne di Prodi con uno scarto di 24.000 voti sul Cavaliere e che, una volta conclusasi, avrebbe consentito a quest’ultimo di tornare trionfalmente al potere dopo le elezioni anticipate del maggio 2008. E dire che la stampa italiana dovrebbe ancora ricordarsi – visto che non sono passati nemmeno dieci anni – che cosa era la maggioranza parlamentare che sosteneva Prodi, cosa furono quei due anni di governo dell’Unione, quali drammatiche divisioni attraversarono il centrosinistra al punto da paralizzare l’esecutivo e da determinarne continue crisi e la fine anticipata. Quelli che oggi sembrano ricordare ogni gesto o parola del senatore Sergio De Gregorio, come possono aver dimenticato le luminose figure del senatore Franco Turigliatto e del senatore Luigi Pallaro?

Prodi – come accennato – aveva vinto con uno scarto risibile di voti guidando una coalizione, denominata l’Unione, che accorpava tutto l’accorpabile del fronte antiberlusconiano: dai Democratici di sinistra alla Margherita, dai Radicali a Rifondazione comunista, dai Verdi all’Italia di Valori, dai Socialisti ai Popolari centristi. Per ricordare qualche nome di leader, ne facevano parte Antonio Di Pietro, Clementa Mastella, Lamberto Dini, Oliviero Diliberto, Francesco Rutelli, Piero Fassino, Fausto Bertinotti: una vera accozzaglia!

Il programma elettorale dell’Unione, per dare spazio alle tesi di tutti i partecipanti all’alleanza, era stato una comodo tascabile di 281 pagine, intitolato “Per il bene dell’Italia”, sul quale all’epoca si sprecarono non poche ironie. Il governo Prodi nacque con una maggioranza al Senato a dir poco risicata (di fatto si reggeva sui voti dei senatori a vita: ebbe la prima fiducia con 165 sì e 155 no) e per accontentare ancora una volta tutti arrivò ad avere 103 membri (tra cui un esercito di 66 sottosegretari). La sua navigazione fu tormentata sin dall’inizio, con momenti critici che portarono più volte l’esecutivo ad un passo dalla caduta. Come quando il 21 febbraio 2007 la risoluzione presentata dalla maggioranza sulle linee di politica estera del governo non raggiunse il quorum di 160 voti (ebbe solo 158 sì, contro 136 no e 24 astenuti) a causa della defezione di due senatori della sinistra radicale: Fernando Rossi e il già ricordato Franco Turigliatto. Prodi fu costretto a dimettersi salvo ottenere nuovamente la fiducia il 28 dello stesso mese con 162 sì e 157 no. All’epoca De Gregorio, eletto nelle fila dell’Italia dei Valori di Pietro e forse, chissà, già a libro paga di Berlusconi, votò contro il governo, ma in compenso ci fu il passaggio da destra a sinistra (ovviamente motivato da nobili ragioni politiche) di Marco Follini.

Ma si potrebbero ricordare il volare di stracci permanente, all’interno della maggioranza, tra Antonio Di Pietro e il ministro della Giustizia Clemente Mastella, specie all’epoca dell’approvazione dell’indulto voluto da quest’ultimo (27 luglio 2006). Oppure il duro scontro nell’esecutivo allorché si trattò di discutere il disegno di legge sulle coppie di fatto presentato da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini, al quale si opposero sia il Guardasigilli Mastella sia ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. O ancora le critiche al governo pressoché quotidiane di Bertinotti, che di quell’esecutivo, insieme al suo partito, fu la vera spina nel fianco. Certo, quel breve biennio merita di essere ricordato anche per alcuni risultati politici conseguiti dal governo: le privatizzazioni volute dal ministro Bersani (le famose “lenzuolate”) o la vittoria al referendum contro la riforma costituzionale approvata dal centrodestra nella precedente legilsatura (giugno 2006). Ma nel complesso – visti i numeri ballerini al Senato e l’eccessiva eterogeneità politica della maggioranza di centrosinistra – si trattò di un Vietnam parlamentare quotidiano. Nel quale sicuramente, come ci hanno ricordato i giudici di Napoli, s’inserì Berlusconi con la sua “Operazione Libertà”, consistente nel convincere qualche parlamentare ballerino a cambiare casacca. Una prassi che nell’ultimo ventennio è stata la norma nel Parlamento italiano, oltreché un fenomeno politicamente trasversale: dalla sinistra alla destra passando per il centro, e viceversa. Salvo scoprire oggi che si tratta non solo di una prassi certamente deplorevole, ma di un reato. De Gregorio in effetti ha ammesso di aver avuto dei soldi da Berlusconi per finanziare il suo effimero movimento politico, una volta lasciato Di Pietro. Ma fidatevi, se questa è corruzione, le carceri italiane dovrebbero essere piene di parlamentari voltagabbana.

Ma veniamo alla ragione vera della caduta di Prodi. Per meglio dire all’episodio che la causò. Dice niente il nome di Mariano Maffei? Era il capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere, quella che il 16 gennaio 2008, nell’ambito di un’inchiesta per concussione che arrivò a coinvolgere una trentina di persone, dispose un’ordinanza di custodia cautelare anche per Sandra Lonardo: presidente del consiglio regionale della Campania, ma soprattutto moglie di Clemente Mastella, all’epoca, come ricordato, ministro della Giustizia. Quest’atto scatenò un ciclone politico-giudiziario che spinse il Guardasigilli – convinto di essere finito con la sua famiglia sotto l’attacco della magistratura per ragioni di vendetta politica – alle immediate dimissioni e al ritiro (il 21 dello stesso mese) del sostegno suo e del suo partito, l’Udeur, al governo. Fu l’inizio formale della crisi che avrebbe portato Prodi alle dimissioni. Il 24 gennaio, al momento della fiducia al Senato, avrebbero votato contro il governo, mandandolo definitivamente a casa, due dei senatori dell’Udeur (tra cui lo stesso Mastella), due dei senatori dei Liberal Democratici di Dini, Domenico Fisichella (già di An ma nel 2006 eletto con la Margherita di Rutelli), Franco Turigliatto e buon ultimo anche Sergio De Gregorio. Quanto al mitico Luigi Pallaro, che per il suo appoggio a Prodi avevo drenato risorse a tutto spiano per gli italiani all’estero che lo avevano eletto, il giorno della fiducia – chissà come, chissà perché – aveva preferito restarsene a Buenos Aires. La batosta in numeri fu la seguente: 161 contrari, 156 sì e un astenuto. E così finì l’avventura del secondo governo Prodi.

Ora si può anche dire – e scrivere sui libri di storia – che Prodi cadde per colpa di De Gregorio, se proprio abbiamo deciso che la verità sulla politica italiana è quella che ormai si forma nelle aule dei tribunali e grazie alle sue sentenze. Peccato solo che le cose siano andate diversamente.

* Editoriale apparso sul “Giornale dell’Umbria” del l’11 luglio 2015

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)