di Daniele Bronzuoli

Quella andata in scena a Roma sabato scorso in occasione della manifestazione degli indignati nostrani potrebbe essere derubricata a farsa, se non si fosse conclusa in tragedia. La futilità dei contenuti, risibili nella forma data loro dalle esauste invettive contro il capitalismo e dalle improbabili perorazioni a favore della «democrazie diretta», o «orizzontale», è pari soltanto al grado di violenza raggiunto sia dagli atti dei pochi (3500, si dice), che dal linguaggio e dal comportamento dei molti (100.000 circa), compresi quelli che hanno pensato bene di gettare insulti e sputi all’indirizzo del vecchio leader radicale Pannella, colpevole soltanto di aver onorato con la sua presenza le aule parlamentari il giorno in cui si votava la fiducia al governo Berlusconi.

L’impressione è che esista una sorta di contiguità tra la forma mentis degli indignati e gli atti di barbaro luddismo praticato dagli ultras dell’antipolitica. La cieca violenza indirizzata da una minoranza contro banche, automobili e vetrine, che ha provocato un milione e seicentomila euro di danni, sembra l’ignobile traduzione fattiva di una più generale impotenza cerebrale, di un vuoto di pensiero, di un’incapacità di analisi. Non una parola da parte dei protagonisti sulle motivazioni dell’attuale crisi economica, sulle dissennate politiche clientelari che, decise negli Settanta dai governi democristiani di concerto con l’opposizione comunista, hanno condotto nel baratro le finanze dello Stato italiano. Solo generiche invettive contro Berlusconi, il «sistema», il «capitalismo» e inverosimili richiami alla formula della «decrescita» coniata da Serge Latouche, ennesimo intellettuale francese alla moda. Come se lo sviluppo economico non conoscesse già da tempo, in Italia, una drammatica stasi, alimentata anche da quell’intreccio perverso tra politica ed «affari» che non è solo responsabilità dei corrotti di turno, ma anche e soprattutto conseguenza della longa manus stesa dai pubblici poteri su fondazioni bancarie, aziende municipalizzate, Poste e comunità montane, dove troppo spesso – con buona pace di coloro che vogliono «mettere l’uomo al centro dell’economia» – i criteri di efficienza funzionale hanno ceduto il passo alla logica politica nella scelta del personale e nella gestione dei capitali. Come se i 1900 miliardi di debito pubblico che gravano sulle spalle soprattutto delle giovani generazioni fossero esclusiva responsabilità dell’attuale governo o, peggio, di una non meglio specificata economia di mercato e non dipendessero, invece, dall’italica – o latina – elefantiasi burocratica, per mantenere la quale lo Stato preleva attraverso circa tredici diverse voci di imposte il 48% degli introiti alle imprese private, impedendo loro di reinvestire, migliorare, competere e creare, quindi, ricchezza da redistribuire. Come se l’istituzione della «democrazia diretta» fosse realmente una soluzione al problema del governo di moderne società complesse e non piuttosto uno stanco e infantile ritornello già recitato negli anni Sessanta e Settanta dai padri degli odierni, rabbiosi manifestanti.

Cos’hanno effettivamente da opporre all’esistente coloro che urlano contro le ingiustizie del «sistema», se non la solita, astrusa rivendicazione degli stessi diritti senza obblighi corrispettivi in nome dei quali negli ultimi quarant’anni si è dato l’assalto al Tesoro pubblico, contribuendo a trasformare l’Università in un democraticissima struttura ipertrofica, inefficiente e antimeritocratica e facendo della Previdenza il cappio al collo di un bilancio pubblico prossimo ad una bancarotta di stile greco?

Io credo nulla. E penso che sia questo il motivo di tanta ferocia verbale, fisica e ideologica. Come insegnava Pareto, «non bisogna confondere la violenza con la forza». La prima è segno di debolezza, mentre l’esercizio della seconda presuppone discernimento, lucidità e intelligenza: tutte qualità clamorosamente non pervenute nelle strade e nelle piazze romane invase dalle parole d’ordine vetero-sessantottine dei manifestanti.

Coloro che lamentavano l’indolenza e l’apatia dei giovani italiani rispetto al «protagonismo» e all’«attivismo» degli indignati stranieri, potranno ora ritenersi soddisfatti.