di Alessandro Campi
Tutti corrotti, nessuno corrotto. Ma non funziona così: il malaffare equamente distribuito, politicamente trasversale, non può valere come una spiegazione sociologica, figuriamoci come una giustificazione per comportamenti che sono e restano moralmente inaccettabili prim’ancora che penalmente perseguibili.
Il fatto che nell’inchiesta romana sulla costruzione del nuovo stadio della Roma figurino rappresentanti e mandatari di tutti i partiti, compresi quelli che si sono proposti agli elettori come i campioni di un radicale rinnovamento nel costume e nella prassi della politica, purtroppo rende bene il problema che storicamente affligge l’Italia. Quello di spacciare per cambiamenti rivoluzionari, per passaggi epocali, quelli che sono invece aggiustamenti superficiali, semplici spostamenti di pedine, laddove i meccanismi del potere reale (e i suoi veri protagonisti) tendono a rimanere sempre gli stessi. E’ il gattopardismo, il cambiare tutto per non cambiare niente: metafora politico-letteraria che non a caso si adatta perfettamente a tutto l’arco della storia unitaria italiana, indipendentemente dai passaggi di regime.
Scoprire grazie alla cronaca giudiziaria che l’antipolitica nuova somiglia maledettamente alla politica vecchia, avendone prontamente adottato le furberie e le logiche spartitorie, fa in effetti una certa impressione. Ma questo accade evidentemente quando ci si accontenta delle enunciazioni roboanti e retoriche, che sono un’altra antica (e cattiva) specialità della cultura politica italiana. Oppure quando nel nome di un’astratta purezza si cede collettivamente all’ipocrisia: come essersi inventati l’idea che la politica democratica sia un’attività senza costo, un diletto da dilettanti, una pratica edificante per cittadini volenterosi, onesti e con molto tempo libero.
Ma la realtà come sempre è tenacemente sgradevole, ovvero tremendamente banale. Dietro le belle parole facili da pronunciare – pulizia, legalità, trasparenza, cambiamento, onestà, competenza, ecc. – ecco dunque che si nascondeva il più scontato dei maneggi, visto mille molte: prebende e regalie distribuite in tutte le direzioni politiche con l’obiettivo di accaparrarsi appalti e commesse in barba ad ogni concorrenza.
Se questo però è il problema, il permanere dalla Prima alla sedicente Terza Repubblica delle stesse logiche opache e degli stessi intrecci perversi tra politica e affari, resta da offrire una spiegazione plausibile del perché continuano a verificarsi vicende simili.
La prima è quella, per così dire, moralistico-antropologica, da sempre in voga ma forse un po’ troppo generica. Gli italiani sono così: cialtroni, irrispettosi del bene pubblico e della legge, incapaci di resistere alle tentazioni, inclini al sotterfugio, pronti ad approfittare di un ruolo pubblico per tornaconto personale, indifferenti alle logiche del mercato. Ma nella foga di condannare i comportamenti di una minoranza colpevole non si rischia, ragionando così, di offendere una maggioranza perbene?
La seconda spiegazione è che forse qualcosa non funziona, sul piano tecnico-procedurale, nel modo con cui sono regolati i rapporti tra pubblica amministrazione e sfera imprenditoriale. Troppa burocrazia, regole troppo lasche, interpretazioni eccessivamente discrezionali? Eppure si sono fatte leggi restrittive, si sono disciplinati in modo stringente gli appalti, si sono introdotti maggiori controlli: possibile dunque che ci trovi sempre a fare i conti con comitati d’affari, cricche e consorterie come nell’era precedente a Mani Pulite? Non sarà che anche quella giudiziaria è stata, italianamente, una rivoluzione a metà o di facciata, che ha tragicamente smantellato un sistema politico, con grande giubilo di un’opinione pubblica inferocita, senza però smantellate le cattive pratiche affaristiche che lo sostenevano?
La terza spiegazione, che si tende forse a sottovalutare, è che in questa furia di cambiamento e di novità che ha preso la politica italiana nell’ultimo decennio, travolgendone ogni regola, si è finito per portare nei posti di responsabilità un personale spesso infimo, avventizio nella migliore delle ipotesi. Accedono oggi alle cariche pubbliche, eletti con pochi voti o cooptati su basi puramente amicali e fiduciarie, senza che ci siano più nei partiti affiliazioni o legami di natura politico-ideale, personalità che in altri periodi della storia italiana non sarebbero andati oltre la distribuzione porta a porta dei volantini elettorali. Oggi invece costoro divengono facilmente assessori, amministratori delegati o consiglieri di società pubbliche, fiduciari di questo o quel capo di partito. E i risultati per l’appunto si vedono: s’è abbassata la competenza senza che sia cresciuta, se non a chiacchiere, la moralità.
C’è stata, con l’idea di avere gruppi dirigenti sempre diversi, sempre nuovi, una selezione al ribasso dei medesimi, che probabilmente spiega perché la corruzione e il malaffare, invece di ridursi, siano rimasti i medesimi di trent’anni fa. Senza dimenticare che le carriere politiche occasionali e di poca durata sono di per sé uno stimolo all’accaparramento a danno dei contribuenti che ci si era impegnati a difendere: toccata e fuga, sfruttando il ruolo che fortunosamente ci si trova a occupare.
Ci saranno riflessi politici per questa vicenda montante? Il povero Ignazio Marino fu costretto alle dimissioni per un affaire di scontrini e con l’accusa di aver indebitamente utilizzata la carta di credito comunale: a pensarci oggi viene da ridere, e verrebbe anche da chiedergli scusa. Resisterà invece la Raggi con la scusa ancora una volta che qualcuno ha tradito la sua fiducia e che i giornali le vogliono male perché donna? Quanto al governo, difficile sfuggire il danno d’immagine. M5S e Lega hanno promesso troppo, anche in termini di pubblica moralità, per permettersi il lusso di avere loro esponenti o fiduciari, nemmeno di secondo piano, coinvolti in una vicenda di corruzione, tangenti e cattiva imprenditoria. Vicenda nella quale, per chiarezza, sono finiti anche esponenti del Pd e di Forza Italia. Ma su costoro nemmeno vale la pena di infierire.
Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 15 giugno 2018
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