di Fabio Massimo Nicosia

Con il presente intervento mi propongo di elevare il concetto di antiproibizionismo a categoria universale dell’agire e della dottrina politica. A parte il precedente del proibizionismo sull’alcol negli Stati Uniti degli anni ’20, oggi si parla di proibizionismo e antiproibizionismo soprattutto con riferimento alla guerra al traffico e al consumo di sostanze stupefacenti.

Le similitudini tra le due vicende storiche è evidente: in entrambi i casi si sono verificati due eventi:

a) Il fatto di proibire una condotta non impedisce che, in concreto, questa condotta venga ugualmente adottata;

b) La proibizione comporta semplicemente il trasferimento del settore dal mercato legale a quello illegale, affidandolo di fatto alla criminalità organizzata, e ciò non per caratteri propri della condotta proibita, ma per il fatto in sé della proibizione.

Il suo opposto è dunque l’antiproibizionismo, che viene di solito difeso con argomenti, più che legittimi, utilitaristici, quali quelli sopra indicati, mentre è nostro obiettivo andare oltre per universalizzare il concetto di antiproibizionismo, a qualunque condotta esso si riferisca.

Diciamo allora subito che l’antiproibizionismo è una categoria specifica del “liberalesimo”, e viene riferita a qualunque condotta che, pur potendo risultare dannosa per chi la pone in essere (il che è dubbio per molte droghe, mentre per altre vale solo in caso di abuso), è del tutto ininfluente sulla condizione dei terzi. Esso si riferisce cioè ai cosiddetti victimless cryme, cioè ai reati senza vittime. Si noti che il nostro codice penale, all’art. 43, già di per sé dovrebbe bastare a fare piazza pulita di questo genere di reati, dato che parla di reati effettivi solo allorché si verifichino eventi dannosi o pericolosi, e su questa linea si è ripetutamente assestata anche la Suprema Corte di Cassazione.

Si tratta della migliore confutazione dell’esperimento di Amartya Sen sull’impossibilità del liberale paretiano. Secondo Sen è impossibile garantire il benessere di due persone, quando una delle due pone in essere un comportamento (ad esempio leggere un dato libro considerato spinto) disapprovato dall’altro. In altri termini Sen invoca tolleranza liberale nei confronti dell’intollerante, dato che costui vorrebbe ricavare dalla sua non approvazione un impedimento nei confronti del libero agire dell’altro.

Sen dimentica cioè che il liberalismo implica intolleranza per gli intolleranti, dato che, in caso contrario, comanderebbero gli intolleranti e non avremmo nessun liberalismo.

In conclusione, il portatore di posizioni proibizioniste non merita di essere considerato né da una prospettiva utilitarista (dato che nel calcolo di utilità le preferenze esterne non sono prese in considerazione), né da una prospettiva dei diritti, perché, anche in tal caso, essenza del liberalismo è che ciò che non lede diritti altrui è perfettamente libero da parte dell’individuo sovrano. Sicché la categoria dell’antiproibizionismo merita di essere promossa, da formula del dibattito politico, a categoria filosofica interna alla costruzione di un pensiero liberale moderno, rinforzandone la vitalità e la coerenza, uscendo dal vizio di genericità, a volte proprio di una parte del pensiero liberale.

 

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