di Angelica Stramazzi

Sulle primarie del centrosinistra è stato detto (ed ipotizzato) di tutto: dal fatto che si trattasse di un mero esercizio democratico (sic!) fino ad arrivare alla posizione di chi proponeva di “bypassarle” per risparmiare danari, visti i tempi di magra (anche per le casse dei partiti) e la disaffezione del corpo elettorale nel recarsi ai seggi – o presso i gazebo – per scegliere i propri rappresentanti. Ad urne chiuse – e a conti fatti – questo bizzarro esercizio di democrazia non solo ha arginato, seppur marginalmente o temporaneamente, il vento dell’antipolitica, portando a votare circa tre milioni di persone, ma ha soprattutto contribuito alla destrutturazione di equilibri e logiche interne che, prima della discesa in campo di Matteo Renzi, tenevano in ostaggio il Partito Democratico: una sorta di blocco monolitico, pur con parecchie sfumature al suo interno, sostanzialmente controllato dalla vecchia dirigenza, quella che, una volta morto e sepolto il Partito comunista italiano, sperimentò un’insolita stagione “democratica”. Ma nonostante l’evoluzione degli scenari politici, con la conseguente presenza mediatica (e non solo) di Silvio Berlusconi, unitamente alla formazione di una compagine moderata, assestata intorno a posizioni centriste e vagamente liberali, il centrosinistra ha sempre mostrato molta fatica nel definire sé stesso: nel cercare cioè di esprimere verso l’esterno – e soprattutto nei confronti del suo elettorato di riferimento – posizioni univoche, convergenti, omogenee e, al netto dei dissensi e delle differenziazioni interne, una linea programmatica comune. Per contro, il ventennio berlusconiano, fatto principalmente di innovazioni comunicative ma soprattutto di mancate riforme in senso prettamente liberale, ha rappresentato per il centrosinistra italiano l’unico collante in grado di tenere unito (non sempre) un retroterra culturale ed ideologico che, sconfitto dalla storia, mal si adattava ai bisogni e alle esigenze che il nostro Paese stava esprimendo a partire dagli anni Novanta in poi.

Venuta meno la figura del Cavaliere, unitamente al suo inquietante (sempre per il centrosinistra) modo di concepire la dialettica politica, si è imposta con forza la necessità di rivitalizzare quella sorta di mondo “antico”, ancora chiuso in sé stesso, piuttosto guardingo e diffidente nei confronti del nuovo, ma ben desideroso di restare saldamente ancorato agli schemi e alle logiche del passato. In questo contesto, un ruolo significativo e senza dubbio strategico è stato giocato dal sindaco di Firenze, inizialmente deriso dai maggiorenti del suo partito per via dell’eccessiva enfasi posta sul tema della “rottamazione”, poi rivelatasi di vitale importanza nel costringere alcuni esponenti di spicco del Pd a passare la mano e a farsi da parte: la “pedina” Renzi si è dimostrata quindi di fondamentale importanza per il rinnovato (e ritrovato) gioco democratico all’interno della compagine postcomunista.

«A rendere originale il caso italiano – ha scritto Paolo Franchi sul Corriere della Sera del 6 dicembre a proposito delle primarie del centrosinistra – sono soprattutto due fattori. Il primo è che la battaglia non si è consumata in un congresso di partito, ma ha avuto per platea tre milioni di persone. Il secondo è che lo scontro non si è aperto, come vuole gran parte della tradizione della sinistra (non solo italiana) all’indomani di una sconfitta o di una serie di sconfitte, ma alla vigilia di una vittoria elettorale unitamente considerata assai probabile». Sulla scia di quanto espresso da Franchi, si può a ragione affermare che il merito principale del centrosinistra è stato quello di ripensare e riprogettare sé stesso, non già in un momento di crisi interna e di calo dei consensi, ma in un lasso temporale in cui i principali centri di ricerca e di elaborazione di sondaggi continuano a dare il Partito Democratico in testa, segno evidente che, nonostante tutto, gli italiani credono ancora nella buona politica o, quantomeno, nella capacità della politica di ridisegnare sé stessa, i suoi equilibri interni e le sue leadership consolidatesi con il trascorrere degli anni. Ecco perché, pur tenendo ben presente che alle elezioni politiche del 2013 il Movimento 5 Stelle incasserà non pochi consensi, il vento dell’antipolitica sarà, ragionando ovviamente in un’ottica di medio – lungo periodo, destinato ad arrestarsi. All’elettore infatti non importa poi più di tanto – o importa a fino ad un certo punto – se il (parziale) rinnovamento del centrosinistra sia da attribuire, ex post, ai capricci di Renzi o alle antipatie nutrite dallo stesso nei confronti di Bindi e D’Alema: ciò che conta è che tre milioni di persone si sono messe in fila, hanno pazientemente aspettato il proprio turno, ed hanno espresso una preferenza.

Tuttavia, pur cercando di far prevalere l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione, si tratta di una vittoria monca perché, come è stato finora spiegato, riguarda una parte (il centrosinistra) e non già il tutto (i restanti partiti, o presunti tali). Per essere davvero competitiva, oltre che credibile, una democrazia ha bisogno che tutte le forze che la compongono, quelle politiche in primis, si mettano in gioco, aprano alla società civile e alla partecipazione che deriva da un libero confronto con essa. Se le modalità di interazione con il corpo elettorale sono mutate col passare del tempo, e la vita di sezione non solo non è più possibile ma neppure pensabile, occorre trovare altri canali lungo cui indirizzare le pulsioni (e i desideri) partecipativi di un popolo che chiede di essere ascoltato. Se il web resta una piazza privilegiata per confrontarsi e scambiarsi delle opinioni, da solo non può bastare, come non può – e non potrà in futuro – assolvere a tutte quelle funzioni che un tempo coinvolgevano anche i partiti. Spetta ora al centrodestra – o a quel che ne resta – e agli altri attori sulla scena, dimostrare di essere all’altezza del compito che gli è stato affidato. Nascondersi dietro un dito, o dietro i desideri mal celati di votare col Porcellum per garantirsi la rielezione, non paga. O meglio, può rendere (più di) qualcosa nell’immediato. Per il futuro invece, bisognerà organizzarsi. Ed iniziare a farlo in fretta.