di Montesquieu*
La notorietà data alle retribuzioni dei dirigenti del servizio pubblico radiotelevisivo risponde all’esigenza di trasparenza invocata per le pubbliche amministrazioni. Alle quali, almeno per quanto riguarda il ruolo preponderante e insostituibile del denaro pubblico e la fondamentale, pubblica missione culturale, si può ben assimilare l’azienda di viale Mazzini.
Dall’operazione emergono sforamenti plurimi del tetto alle retribuzioni pubbliche, tetto voluto dall’opera convergente e progressiva degli ultimi tre governi; nonché il fenomeno, tanto noto quanto paradossale, di dirigenti retribuiti pienamente nell’assenza desolante di qualsiasi compito, competenza, obiettivo da raggiungere. Sicuramente una specialità nazionale di cui non vantarsi, accanto a tante specialità positive del made in Italy: che fa il paio con un’altra, quella relativa allo svolgimento di funzioni pubbliche anche strategiche a titolo del tutto gratuito, quando il reddito da pensione del titolare raggiunga il tetto di cui sopra. Anche questa situazione è frutto indiretto delle stesse decisioni governative degli ultimi anni, sull’onda di una ventata di capovolgimento di uno dei capisaldi delle riforme che portano il nome del ministro della pubblica amministrazione del finire del secolo scorso, Franco Bassanini. Quello di alzare i livelli della produttività degli standard di attività pubbliche attraverso una competizione retributiva tra pubblico e privato, nella provvista degli alti dirigenti.
C’è un principio a cui qualsiasi organizzazione burocratica, pubblica o privata, sotto qualsiasi latitudine, lega la propria efficienza, e la stessa efficacia: il legame tra responsabilità e riconoscimento, in primo luogo retributivo, e quello tra inefficienza e possibilità di sanzione. Questo legame è inesistente nei due paradossi : il lavoro senza guadagno e il guadagno senza lavoro. La solidità dei grandi paesi è data dalla convivenza della capacità di riforma, a fronte delle grandi sfide imposte dai tempi che cambiano, con la capacità di conservazione delle grandi tradizioni nei settori di base dello stato, come la politica fiscale, quella scolastica, quella amministrativa.
La politica italiana si caratterizza generalmente per manifestazioni opposte: staticità dove occorrono mobilità e modernità, frenesia modificatrice dove lo spessore è dato dal mantenimento delle certezze. Non vi è governo degli ultimi trent’anni che non abbia sottoscritto riforme di tutti gli ordini di studi, riforme del fisco, della funzione pubblica, e altro. Quante riforme ha fatto, negli stessi settori e in analogo arco di tempo, lo stato francese? Con la conseguenza schizofrenica di generazioni sincopate di pensionati d’annata, con età di uscita dal lavoro che variano tra i quaranta ed i settant’anni; di contribuenti targati dal tale governo, di diplomati e laureati del talaltro; e via discorrendo. Restando nel campo delle retribuzioni, nel giro di due o tre lustri troviamo manager pubblici strappati al privato in virtù di una politica di concorrenza retributiva tra i due settori, in virtù quindi di un patto con lo Stato, che segnava il loro futuro personale, familiare e non solo professionale; e penalizzati da decisioni estemporanee ed unilaterali di un governo; e dirigenti che hanno creduto ad una promessa dello Stato per la quale guidare, ad esempio, le forze di polizia, o la ragioneria generale dello stato, o la protezione civile con i suoi mille problemi di conseguenze dell’incuria pubblica, non fosse anche in base ai riconoscimenti retributivi, inferiore alla conduzione di un’azienda privata.
In questa precarietà volubile delle certezze che fanno di una comunità uno Stato forte, e nella staticità dell’azione riformatrice di tanti governi , quasi un’altra specialità nazionale, si trova la ragione di tante debolezze pubbliche italiane. L’accento insistito sulla “governabilità”, intesa come durata media dei governi, ha messo ai margini dell’interesse nazionale la continuità dello Stato, della forza della sua parola. Alla futilità delle parole dei governi ci si abitua, e non solo nel pressapochismo nazionale; la parola non mantenuta dello Stato produce quella sfiducia collettiva spesso senza ritorno che caratterizza i nostri tempi.
* Montesquieu è lo pseudonimo di un alto funzionario pubblico, che per alcuni anni ha guidato in qualità di Segretario generale la Camera dei deputati. Attualmente scrive sul “Sole 24Ore”.
montesquieu.tn@gmail.com
Lascia un commento