di Alessandro Campi
Quando nel 2015 Sergio Mattarella raccolse l’eredità di Giorgio Napolitano nel ruolo di Capo dello Stato su un punto, considerata la loro biografia politico-intellettuale, apparvero subito diversi e distanti: la diversa attenzione da essi prestata alla politica estera e il loro diverso profilo internazionale.
A lungo responsabile esteri del Pci, ben conosciuto nelle Cancellerie di mezzo mondo, Napolitano era – come disse una volta celiando Henry Kissinger – il “comunista preferito” dagli americani: per il tratto felpato e la riservatezza che lo caratterizzavano come politico e per l’indubbia capacità a tessere relazioni amichevoli anche coi nemici ideologici nel segno della realpolitik. Laddove Mattarella, uomo della sinistra democristiana e giurista, aveva sempre avuto più attenzione per gli equilibri costituzionali di un Paese strutturalmente fragile quale l’Italia e per le dinamiche tra partiti; oltre a portare incisi sulla sua carne i drammi interni – dalla violenza mafiosa a quella terroristica – che hanno scandito, rendendola in certi momenti cupa e asfissiante, la vita della Repubblica.
Ma in politica, come del resto nella vita privata, capita spesso di dover fare di necessità virtù. Ovvero di doversi occupare di questioni distanti dalle proprie sensibilità ed esperienze o, ancora più, di dover colmare, per senso di responsabilità e dovere d’ufficio, i buchi creati o lasciati aperti da altri. Esattamente quel che è successo a Mattarella con la politica estera nazionale, sulla quale – quando si scriverà la storia del suo settennato – si scoprirà che egli ha inciso più di quanto si potesse immaginare o possa ancora oggi sembrare.
La necessità che ha imposto la sua applicazione virtuosa alla cura dell’immagine internazionale dell’Italia e alla difesa dei suoi interessi si è palesata con la nascita del primo governo Conte, quello cosiddetto giallo-verde, nel giugno del 2018. Lo sostenevano infatti due partiti dalle vedute di politica estera oppostamente ambigue: coi grillini che strizzavano l’occhio al bolivarismo anti-americano e al mercantilismo espansionista e autoritario della Cina; e coi leghisti che civettavano senza nascondersi col nazional-imperialismo putinista. Oltre ad essere entrambi partiti dichiaratamente nemici dell’Europa e troppo simpatetici coi nemici della libertà sparsi per il mondo. In quella fase convulsa toccò a Mattarella offrire garanze agli alleati del coté atlantico, evitare che si arrivasse ai ferri troppo corti con l’Europa, impedire l’isolamento diplomatico dell’Italia per eccesso di eccentricità e rimediare ad alcune palesi gaffe. Come quella volta in cui Luigi Di Maio, all’epoca vice-premier, volò in Francia per offrire il proprio sostegno politico alla battaglia dei gilets jaunes, facendo infuriare Macron e tutta la Francia ufficiale.
Venne poi il secondo governo Conte, quello cosiddetto giallo-rosso, certamente più europeista grazie alla presenza in esso del Pd, un governo anzi nato con l’avallo e la benedizione nemmeno troppo nascosta di Bruxelles, ma che manteneva al suo interno, in posizione egemone, quel M5S rimasto (peraltro sino ad oggi) troppo amico della Cina. Partito chiamato peraltro in quest’occasione ad esprimere, con Di Maio, il ministro della Esteri, dunque il capo formale della nostra diplomazia.
E infatti nemmeno in questa fase gli attriti e i problemi sono mancati. A partire dai malumori statunitensi per come l’Italia si è ambiguamente schierata nella guerra tecnologico-commerciale tra l’Aquila e in Dragone. Anche in questo periodo, la tessitura diplomatico-negoziale di Mattarella, riservata per definizione, si è rivelata a dir poco preziosa, nella misura in cui è toccato a lui confermare l’irrinunciabilità, oltre gli uomini e i governi che per definizione passano, delle scelte internazionali fatte dal nostro Paese già 70 anni fa.
È poi sopraggiunto quell’autentico acceleratore della storia rappresentato dalla pandemia, che politicamente – complice l’emergenza e la scelta di governarla a suon di decreti direttamente da Palazzo Chigi – ha fatto nascere il Governo Conte III de facto. I primi due mesi dopo l’inizio dei contagi furono terribili per l’Italia, trattata dai suoi stessi alleati come un’appestata alla quale, in quel momento di massima difficoltà, nessuno pensava di dover offrire un aiuto, come se la pandemia in corso fosse un problema della Penisola e non, come si è scoperto presto, di tutta l’Europa e poi del mondo intero.
In quei frangenti, il richiamo ai singoli leader europei e all’Europa unita come tale, affinché non prevalessero gli egoismi e ci si decidesse ad una mobilitazione comune contro il virus, ha rappresentato l’impegno preminente del Quirinale, anche se i meriti di quel lavorìo diplomatico, che ha determinato un drastico cambio di strategia da parte di Bruxelles e dei singoli Stati, se li è intestati soprattutto il premier grazie al suo attivismo politico-mediatico.
Un ruolo del Quirinale sempre più attivo negli affari globali dell’Italia che in realtà ha dei precedenti che lo giustificano, come egli stesso ha voluto ricordare commemorando il suo predecessore al Colle Carlo Azeglio Ciampi nel gennaio di quest’anno. Fu proprio quest’ultimo – all’epoca in cui era Presidente del Consiglio Giuliano Amato – a esprimere la volontà esplicita di essere preventivamente informato sulle eventuali decisioni di politica estera del governo, in modo da poter anticipatamente esprimere “giudizi, esortazioni e valutazioni”. Non per ingerire nell’azione dell’esecutivo, ma con l’idea che i sistemi di alleanza di un Paese, essendo strutturali e di lungo periodo, oltreché vitali, debbano essere messi al riparo dagli umori cangianti della politica e dal variare delle maggioranze parlamentari, soprattutto quando queste ultime sono particolarmente instabili.
Un ruolo attivo e dirimente che Mattarella ovviamente non ammetterebbe mai, tanto meno se percepito come tutelare o sostitutivo di una classe politica che si muove sulla scena nel mondo senza bussola, ma che l’altro giorno è stato esplicitamente riconosciuto dal suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier durante il loro incontro ufficiale a Milano. Aver ricordato il numero esatto dei loro colloqui nei momenti bui del lockdown (ben sei) non è stato un vezzo ragionieristico, o un semplice omaggio alla loro amicizia. È stato un riconoscimento politico esplicito: senza il pressing del Colle in primis sulla Germania merkeliana e poi sull’Europa guidata dalla tedesca von der Leyen probabilmente, infatti, non ci sarebbe stato l’accordo franco-tedesco che, vincendo le ritrosie dell’Europa cosiddetta “frugale”, ha dato il via libera al piano di aiuti finanziari di cui l’Italia, più di altri Paesi, potrà godere (anche se questo governo ancora non ci ha detto niente su come vorrebbe spendere le risorse a sue disposizione).
Un rapporto forte, quella costruito grazie a Mattarella con la Germania, sul quale – detto per inciso – all’Italia converrebbe investire, visto il modo con cui si è andato riarticolando l’equilibrio dei poteri in Europa. La Gran Bretagna è ormai fuori dai giochi continentali (Berlusconi fu l’ultimo ad utilizzarla come sponda contro l’asse franco-tedesco e come trampolino per rafforzarsi nei rapporti con gli Stati Uniti). I Paesi del nord Europa non ci amano e mai ci ameranno: antichi pregiudizi antropologici si sono saldati nel tempo con un rigorismo protestante in materia di conti pubblici che è solo l’altra faccia, intrisa d’ipocrisia, del loro spirito bottegaio. La Francia è, per ragioni storiche, il nostro antagonista naturale in ogni possibile partita: dall’energia al Mediterraneo. La Spagna da sempre ci insegue, ci emula, ci invidia e sogna di sorpassarci, rappresentando dunque un competitore oggettivo. L’Europa dell’Est gioca in autonomia la sua partita geopolitica mossa dai suoi fantasmi antichi e recenti: la nostalgia latente dell’impero austroungarico e la paura ricorrente dell’orso russo.
Non resta, per l’Italia, che la Germania. Con la quale non è vero che siamo legati – come si è scritto in questi giorni cedendo al semplicismo – da una lunga e profonda amicizia (ma i libri di storia non li legge più nessuno?). Ma con la quale, tenuto anche conto del fatto che non abbiamo partite concorrenti nel Mediterraneo, un’amicizia in vista del futuro ci converrebbe solidificarla, come premessa per contare di più in Europa e anche come modo per compensare il disimpegno crescente degli Stati Uniti che più di altri penalizza proprio l’Italia.
Più contatti con Berlino, secondo l’indicazione del Colle, invece che inseguire farfalle diplomatiche tra Pechino, Mosca, Tripoli, Ankara e Caracas.
- Editoriale apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 19 settembre 2020
Lascia un commento