di Veronica Coletta

erdogan.jpegE’ ormai trascorso un anno da quella lontana notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, quando un colpo di stato militare tentò di rovesciare il governo del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Da allora si è parlato molto della Turchia. I media italiani e internazionali, intenti a comprendere e cercare di prevedere le mosse di un governo destabilizzato e diviso, hanno spesso fornito l’immagine di una Turchia scissa non soltanto sulla figura di Erdoğan, ma anche, e soprattutto, a livello sociale, culturale e religioso.

Le conseguenze del fallito golpe si sono avute già nei primi giorni, caratterizzati da massicci e ingiustificati arresti e dal licenziamento di migliaia tra funzionari pubblici, giudici, esponenti dell’esercito e della polizia, insegnamenti e professori universitari, nonché giornalisti e dissidenti politici. L’epurazione messa in atto dal governo di Erdoğan agli occhi dei media è spesso sembrata frutto di un’intenzione pregressa di eliminare le opposizioni politiche del paese, non solo quelle coinvolte negli scontri della notte del 15 luglio. A partire ovviamente dai membri e simpatizzanti del movimento religioso di Fethullah Gülen, ritenuto l’ispiratore del golpe e la principale minaccia alla sicurezza del paese.

Dal punto di vista della politica interna, la dura repressione governativa ha visto il suo apice nel referendum costituzionale dello scorso 16 aprile che, seppur con uno stretto margine del 51,4 per cento e non senza accuse di brogli elettorali, ha trasformato il paese in una repubblica presidenziale, in cui il governo e la carica di primo ministro sono stati aboliti per lasciare spazio ad un potente Presidente della Repubblica, unico capo dell’esecutivo, con il potere di nominare e revocare ministri, e leader indiscusso del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP).

Nonostante le opposizioni curde e di quella parte europea della Turchia che alimentano la scissione geografica e politica della penisola anatolica, il paese sembra aver intrapreso una strada che si allontana irrimediabilmente dai paesi europei, indirizzata sempre più verso un insanabile isolazionismo accentuato dall’intenzione governativa di reintrodurre la pena di morte nella Costituzione del paese.

Fin qui la situazione sembrerebbe piuttosto chiara: la Turchia non è più candidata a far parte dell’UE mentre quest’utile si erge a difenditrice dei valori democratici e dei principi umanitari fondamentali. Eppure, se guardiamo la situazione con occhio critico, essa risulta essere molto più complessa. C’è infatti come un sottile filo rosso che tiene uniti due mondi all’apparenza così lontani. Quali sono le questioni che legano l’Europa e l’emisfero atlantico ad un paese autoritario e assolutista come la Turchia?

I temi rilevanti tutt’ora irrisolti sono essenzialmente due: quello dei migranti e quello della lotta al terrorismo. Entrambi sono espressione di una politica estera turca che attraversa una fase di re-definizione in questi ultimi tempi, con la Russia, da un lato, e con Stati Uniti e Unione Europea dall’altro.

A proposito della questione migranti, lo scorso 25 maggio a Bruxelles tra Ue e Turchia si è arrivati a nuovi accordi dopo mesi di forti tensioni. Il difficile rapporto tra l’Unione e la penisola anatolica, infatti, sembra ora essersi ripreso grazie a negoziati bilaterali su questioni urgenti da affrontare, tra cui l’ingresso del paese nella UE.

Per quanto riguarda l’accordo sui migranti, quello del marzo 2016 ha dimostrato inefficienza e improduttività da entrambe le parti. L’accusa maggiore mossa da Ankara a Bruxelles era quella di non aver rispettato alcune condizioni dell’accordo, come la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi nello spazio Schengen. Di contro, l’UE si è difesa affermando che di fronte a leggi antiterroristiche così ampie ed eccessivamente restrittive della libertà di espressione, sarebbe stata impossibilitata a rispettare gli accodi stabiliti. Inoltre, impegnandosi Ankara ad impedire alle migliaia di profughi siriani presenti nel proprio paese di raggiungere l’Europa in cambio di varie agevolazioni (la maggior parte delle quali non soddisfatte), il paese si è ritrovato nel pieno di una vera e propria emergenza umanitaria, ospitando dalle primavere arabe del 2011 ad oggi circa tre milioni di profughi siriani allocati in campi di accoglienza. In aggiunta, aver impedito l’atterraggio del ministro degli esteri turco in Olanda tra l’11 e il 13 marzo 2017, nell’imminenza delle elezioni politiche olandesi, non ha fatto altro che peggiorare un quadro già piuttosto critico. I vertici UE in questa occasione, considerate le dure ritorsioni messe in atto da Ankara nei confronti della diplomazia olandese, hanno fortemente disapprovato le accuse di fascismo e nazismo mosse dalle autorità turche a quelle olandesi, e hanno ammonito la Turchia per i suoi atteggiamenti anti-europeisti e illiberali.

L’incontro dello scorso maggio, tuttavia, ha visto aprirsi uno spiraglio nelle relazioni diplomatiche già piuttosto tese. Tale spiraglio, affrontato durante il vertice del 13 giugno, consiste in due tematiche fondamentali su cui UE e Turchia possono ancora accordarsi: l’unione doganale e il già citato accordo sui migranti. Per quanto riguarda il primo punto, entrambe le parti si sono impegnate e continueranno ad impegnarsi per estendere questa unione anche ad altri beni e prodotti, non soltanto a prodotti industriali; a proposito del secondo, invece, Ankara si impegna nel trattamento dei dati sensibili e nella revisione della legge sul terrorismo, mentre la parte europea si impegnerà a saldare i 3 miliardi di finanziamento previsti come stanziamento a corollario di tale accordo.

Un aspetto imprescindibile che fa sì che Ankara e Bruxelles siano al tempo stesso amiche e nemiche l’una dell’altra è dunque quello economico. Basti pensare che l’UE è il mercato di esportazione principale della Turchia (44,5%) e che quest’ultima, a sua volta, è quarta per l’esportazione nella UE (4,4%).

Per quanto concerne il tema della lotta al terrorismo, rapporti piuttosto tesi sono stati quelli turco-statunitensi, derivanti dalla gestione della crisi siriana. Washington, infatti, era stata chiara nel pretendere un solido appoggio da parte di Ankara nella lotta anti-IS, appoggio che sembra essere arrivato solo nell’ultimo anno e mezzo. In aggiunta, il supporto assicurato dagli USA ai combattenti curdi dell’Ypg (Unità di protezione popolare), attivissimi nel contrastare l’IS, e la richiesta di estradizione (non accolta) di Gülen, ritenuto il mandante del fallito golpe e residente negli Stati Uniti dal 1999, hanno fatto sì che i rapporti tra i due paesi si incrinassero ulteriormente. Se la Turchia collabora o meno con lo Stato Islamico, resta ancora oggi un nodo da sciogliere. Secondo alcuni studi condotti dalla Columbia University nel 2014, le accuse mosse al governo di Erdoğan andavano dalla cooperazione militare e dal supporto logistico ad assistenza sanitaria e finanziaria e aiuto nel reclutamento.

Stando così le cose, ad Ankara sembra essere rimasto come unico e più sicuro interlocutore politico-diplomatico la Russia di Putin.

La ritrovata intesa con la Russia dopo i fatti del novembre 2015, quando venne abbattuto un caccia russo nello spazio aereo turco, evidenzia due aspetti molto importanti della politica estera di Erdoğan. Il primo è il tentativo di coinvolgimento nella politica mediorientale turca dell’Iran, alleato fondamentale per frenare le aspirazioni curde a creare uno stato indipendente tra Iraq, Iran e Turchia; il secondo quello dell’estensione all’area mediorientale del principio di regional ownership, pilastro essenziale nelle relazioni turco-russe. Tale principio, attribuendo agli attori locali la responsabilità della sicurezza regionale, rappresenta una presa di distanza dalla visione euro-atlantica che spinge invece Ankara verso una maggiore autonomia economica e politica. Tale indipendenza si articola, però, di pari passo con taciti accordi con l’alleata migliore che valorizzano l’interdipendenza tra i due partner. Per Ankara, infatti, il Cremlino rappresenta il primo partner commerciale e il primo fornitore di gas, mentre la Turchia rappresenta per la Russia un partner strategico all’interno del blocco euroasiatico e il secondo mercato di sbocco del proprio gas, dopo la Germania. Dal punto di vista delle relazioni diplomatiche, invece, queste si sono essenzialmente basate su una politica estera comune nel vicino Caucaso e Mar Nero, terreni privilegiati di affermazione del principio di regional ownership.

Il nodo cruciale di questa ritrovata intesa consiste in una relazione bilaterale piuttosto sbilanciata che, per certi versi, mantiene viva la possibilità di crisi. Pendendo a favore della Russia, infatti, gli esperti affermano la necessità di ritrovare stabile fiducia tra i due paesi per ristabilire un autentico clima di cooperazione soprattutto dopo la crisi del 2015. Quello che emerge, pertanto, è la necessità da parte di Ankara di avvicinarsi a Mosca soprattutto nel momento di isolazionismo internazionale che sta vivendo e per le minacce esterne e interne al paese (questione curda e terrorismo islamico), in un momento in cui, tuttavia, la piena fiducia tra i due paesi deve ancora essere ricostruita.

La Russia da una parte e gli Stati Uniti dall’altra premono affinché il ruolo della Turchia si definisca prima possibile poiché entrambi riconoscono la sua importanza geografica e strategica.

Difficile affermare con sicurezza il futuro scenario politico di un paese che sta ancora definendo la strada da intraprendere; quel che è certo è che una volta scelti gli schieramenti e le inclinazioni politiche, sarà difficile tornare indietro.

 

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