di Federico Donelli
In un’intervista rilasciata a metà settembre alla televisione americana CBS il Presidente siriano Bashar al-Assad ha dichiarato che nel caso di un intervento straniero in Siria il regime sarebbe pronto a lanciare un’offensiva servendosi di movimenti e gruppi affiliati in grado di destabilizzare dall’interno diversi Stati della regione. Una prospettiva che ha allarmato tutti i Paesi confinanti, tra cui Israele, preoccupato dal possibile intensificarsi dell’attività Hezbollah lungo i propri confini siro-libanesi, e la Turchia, Paese considerato dal regime alawita non solo reo di aver tradito un’amicizia ritrovata nei primi anni duemila ma anche individuato come uno dei principali sponsor dell’Esercito Libero siriano.
Per cercare di comprendere la reale portata della minaccia di Assad occorre innanzitutto non prendere alla lettera le sue parole ma, piuttosto, cercare di contestualizzarle in quanto espresse durante i giorni in cui era forte sul regime la pressione proveniente da Mosca affinché venissero fatte concessioni e aperture sulle armi chimiche. Fatta questa premessa, la presa di posizione di Assad denota due principali elementi di analisi ed interesse: il fatto che il regime si senta ancora in grado di fare leva su gruppi armati presenti in altri Stati pronti ad appoggiarlo (in particolare in Turchia) e che in caso di attacco la Siria piuttosto che una rappresaglia militare sarebbe pronta a reagire servendosi di «non state actors».
I non state actors vicini al regime siriano e potenzialmente operativi in territorio turco sono essenzialmente due: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e la formazione marxista Acilciler. Il PKK rappresenta una mina vagante nel contesto turco nonostante il suo storico leader, Abdullah Öcalan, abbia da poco raggiunto con il governo di Ankara un primo quanto ancora precario accordo di massima per il definitivo cessate il fuoco. Proprio durante i mesi di trattative con Öcalan, dal 1999 detenuto sull’isola prigione di İmralı, i servizi segreti turchi (MIT) hanno avuto conferma dei molti legami transnazionali costruiti negli anni dal movimento con le comunità curde dei Paesi confinanti (Siria, Iraq, Iran) e con alcuni governi (Siria, Iran). Hanno trovato riscontro i sospetti relativi al ruolo assunto negli ultimi anni dall’Iran, principale competitor regionale della Turchia, che da tempo persegue una politica di attrito indiretto. Una particolare declinazione di «proxy war» caratterizzata dall’utilizzo di gruppi e movimenti a lui vicini dal punto di vista confessionale ma anche politico ed ideologico. Manifesto di tale impostazione è il movimento Hezbollah che, godendo dell’incondizionato appoggio iraniano, continua ad occupare un ruolo di primo piano non solo nel complesso contesto politico libanese ma anche nella guerra civile siriana. Dato assai più rilevante per Teheran è però il fatto che Hezbollah continui a rappresentare prima di tutto “Il deterrente” ad un eventuale attacco israeliano. Tale paradigma è stato ripreso dal regime di Assad che, a seguito dello scoppio della crisi interna, ha compreso di poter sfruttare il PKK come freno verso i propositi bellicosi di Ankara. Infatti, il PKK negli ultimi tre anni, nonostante lo sviluppo di un controverso e poco uniforme rapporto con le diverse fazioni curde-siriane (alcune sono apertamente anti-regime altre no), ha goduto di ingente appoggio logistico e materiale da parte del regime alawita, oltre che dallo stesso Iran, più volte accusati dalle autorità turche di offrire riparo e armamenti a gruppi di guerriglia curda.
Il PKK pur costituendo la principale minaccia alla sicurezza interna turca non è l’unico gruppo a beneficiare del prolungarsi della crisi siriana e della conseguente anarchia che regna nelle zone cuscinetto di confine. Infatti, a trovare nuova linfa è stata anche una vecchia organizzazione di estrema sinistra turca, il gruppo marxista Acilciler. Il movimento, il cui nome è traducibile come “Urgentisti”, rappresenta un residuo del più noto ed importante Partito/Fronte di Liberazione Popolare di Turchia, molto attivo durante gli anni Settanta, costretto alla clandestinità dopo il colpo di Stato militare del 1980. L’Acilciler godendo di carta bianca da Assad e del sostegno dei servizi segreti siriani (Mukhabarat) ha negli ultimi mesi intensificato la propria attività nelle aree di confine reclutando un gran numero di Nusayris (giovani alawiti) della provincia turca meridionale di Hatay, dove nell’ultimo anno sono stati compiuti una serie di attacchi terroristici. Il rischio maggiore ad oggi è che queste fazioni oltre ad aumentare le tensioni nelle aree di confine, si rendano protagonisti di vere e proprie azioni di guerriglia urbana nel cuore dell’Anatolia dove potrebbero agire come gruppi di Shabīḥa, ossia milizie armate in abiti civili, con il preciso scopo di fomentare le violenze su base settarie.
Molti sono i dubbi relativi all’effettiva capacità del regime siriano di mobilitare e comandare milizie in grado di agire a livello transnazionale, a cui si aggiunge l’improbabile interesse in tale politica dell’Iran di Hassan Rouhani, impegnato in un timido disgelo delle proprie relazioni diplomatiche con l’Occidente. Detto questo la Turchia è perfettamente conscia dei rischi che un intervento armato in Siria comporterebbe per la propria sicurezza interna. Rischi a cui si sommano valutazioni prettamente politiche, in quanto ad oggi la maggior parte dell’opinione pubblica turca resta fermamente contraria a qualsiasi coinvolgimento in Siria. Tutti fattori che rendono il governo di Erdoğan sempre più inerme e immobile di fronte al prolungarsi della crisi siriana.
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