di Emanuele Castelli
Nella gerarchia dei diversi beni pubblici forniti dagli stati, la sicurezza ha tradizionalmente occupato una posizione prioritaria, non solo perché intrinsecamente legata alla funzione di esercizio del monopolio della forza (propria dello stato) ma anche – e direi soprattutto – perché bene pubblico propedeutico agli altri. Non è infatti possibile usufruire di tutti gli altri servizi (welfare, educazione e sanità, solo per menzionare i principali) in un ambiente instabile o insicuro. La situazione degli stati deboli o falliti (come la Somalia, o più recentemente la Libia e la Siria), dove povertà, indigenza e malattie sono continuamente alimentate dalla mancanza, appunto, di sicurezza, è da questo punto di vista emblematica. La sicurezza è dunque una dimensione fondamentale, una condizione basilare del vivere sociale.
È innanzitutto per questo motivo che il volume Sicurezza globale curato da Paolo Foradori e Giampiero Giacomello (Il Mulino 2014, euro 24,00, 292 p.) è da accogliere positivamente nel contesto del panorama scientifico italiano. E già a partire dal titolo ci accorgiamo che qualcosa è cambiato rispetto a qualche decennio fa: lo stato oggi non rappresenta più (o non solo) il principale attore della sicurezza. E la stessa sicurezza non è più solo internazionale (sicurezza dalle minacce provenienti da altri stati), e nemmeno transnazionale (minacce comuni a più stati). Ora è diventata globale. Si tratta di un aggettivo che, se da un lato ci dà la misura della portata delle minacce emerse nell’epoca della globalizzazione (che ha aumentato – per utilizzare un gergo in voga nella letteratura degli anni Settanta – sia la sensibilità che la vulnerabilità alle stesse), dall’altro ci dice molto sulla loro natura. Si tratta di fenomeni essenzialmente nuovi, che solo vent’anni fa sarebbero difficilmente entrati nell’indice di un volume analogo.
La novità delle minacce, a sua volta, ha reso sempre più imprescindibile aprire le porte degli studi politologici sulla sicurezza alle altre discipline delle scienze sociali. Ed è questo che i curatori hanno probabilmente deciso di fare quando hanno identificato gli autori dei singoli contributi al volume (politologi, per la maggior parte, ma anche un nutrito gruppo di sociologi, un economista, e perfino un medico e un fisico spaziale). Sarebbe infatti difficile valutare i rischi sanitari, ambientali, tecnologici o economici senza esperti di quei settori. E la multidisciplinarietà con cui è affrontato il tema della sicurezza in epoca globale rappresenta senz’altro il valore aggiunto del volume, che si connota sia come classico manuale per gli studenti universitari (le molte schede di approfondimento sui temi-chiave del libro rivelano proprio questa destinazione principale) che come lettura di divulgazione rivolta al pubblico più interessato. Negli ultimi quindici anni, e probabilmente a causa dell’impatto emotivo e simbolico dell’11 settembre, si è del resto assistito a un marcato incremento nel numero di iscritti ai corsi di laurea in Studi internazionali, così come è aumentato l’interesse dell’opinione pubblica rispetto alle dinamiche globali.
Il volume non è tuttavia solo una semplice raccolta di saggi accademici. È piuttosto un insieme strutturato di analisi che – rimandando le une alle altre – offrono una visione coerente dello stato dell’arte nei diversi settori della sicurezza globale. Il merito dei curatori, a questo riguardo, è senz’altro quello di aver selezionato gli autori (tutti italiani, e prevalentemente giovani) in base ai loro interessi di ricerca. Quindi, e più implicitamente, il volume ci offre anche una panoramica sullo stato della ricerca italiana in ambito di sicurezza (fatto importante, questo, nell’epoca della “fuga dei cervelli”). Ognuno dei 14 capitoli del volume ha una struttura analoga, e questo rende senza dubbio più agevole la sua lettura: a una sezione di inquadramento storico-teorica delle diverse minacce alla sicurezza, segue una parte dedicata alla discussione critica, mentre nelle conclusioni di ogni contributo gli autori si spingono a delineare le implicazioni di policy, oltre alle possibili sfide che potrebbero emergere dalle stesse minacce.
Il filo conduttore, nell’apparente pluralità dei temi presi in esame, emerge con chiarezza dall’intimo legame che unisce molte delle nuove minacce alla sicurezza. Basti pensare, ancora una volta, a come oggi la fragilità dello stato in Libia o in Siria stia fomentando terrorismo e insurrezioni, a come i network criminali tentino di sfruttare la situazione per arricchirsi (attraverso il commercio di armi o di droga), e a come l’instabilità di quei contesti possa proiettarsi anche qui, sulle nostre società, sotto forma di flussi migratori e di crisi negli approvvigionamenti energetici. E a come, di fronte a questo scenario di instabilità, gli stati occidentali e tecnologicamente avanzati fatichino ad essere più che semplici e passivi spettatori. Paradossale, forse, per chi nel corso della propria storia di progresso è giunto a dominare persino lo spazio. Ancora di più, se si pensa che proprio gli strumenti del progresso scientifico e tecnologico (dalla fisica nucleare all’informatica) potrebbero essere oggi sfruttati proprio dai nemici dell’Occidente.
A livello accademico, il volume si colloca, come detto, nel solco dei cosiddetti security studies, che sono sorti negli anni Ottanta del secolo scorso dall’incapacità degli studi più tradizionali (generalmente raggruppabili sotto l’etichetta di strategic studies) di dare ragione delle minacce non statali e non militari alla sicurezza. Un campo di analisi sostanzialmente giovane, dunque, che a partire dalla pubblicazione di People, States and Fear di Barry Buzan (1983) si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni. La sicurezza, diceva Buzan in quell’opera che ormai la letteratura considera come spartiacque, non è più solo un fatto oggettivo. Ma una condizione innanzitutto soggettiva e individuale, se non addirittura emotiva o psicologica. L’esempio classico che si propone agli studenti in classe è, a questo proposito, quello del programma nucleare iraniano: perché ci fa così paura? E perché, invece, non percepiamo come minaccia quello indiano o quello israeliano? Il contenuto e il significato della sicurezza cambiano nel corso del tempo. Così come è cambiato il modo di studiare le stesse sfide alla sicurezza.
Queste trasformazioni nella natura e nella percezione dei fenomeni che minacciano la sicurezza globale riflettono anche uno shift nell’attenzione verso tali studi dall’America (dove i strategic studies sono nati all’epoca della guerra fredda) all’Europa (che, di converso, ha dato i natali a molte delle discipline in seguito riprese dagli stessi studi strategici). Shift che ha coinvolto anche la prospettiva analitica, e quindi le basi epistemologiche di tali studi, che sono diventate meno razionaliste a più post-positiviste, meno descrittive e più critiche. E sicuramente non più solo appannaggio degli studi politologici, se si pensa a come il programma di finanziamenti alla ricerca recentemente lanciato dalla Commissione Europea (Horizon 2020, che include una challenge specifica su Secure Societies) richieda espressamente l’elaborazione di progetti multidisciplinari, non solo all’interno delle scienze sociali, ma anche e soprattutto tra hard sciences e humanities.
Circa tredici anni fa, in un pamphlet destinato a diventare celebre, il politologo americano Robert Kagan affermava che, in realtà, europei e americani non posseggono la stessa visione del mondo, e anzi provengono da pianeti diversi (i primi da Venere, i secondi da Marte). Ebbene, se per l’analista della Brookings Institution questo dava la misura della debolezza (europea) e del potere (americano), oggi possiamo dire che la vera forza degli studi europei alla sicurezza sta proprio in quella diversa prospettiva analitica che hanno portato alla disciplina, e che è adottata in molti dei contributi raccolti nel volume. La lezione che abbiamo imparato, e che in Sicurezza globale emerge in modo chiaro, è che per far fronte alle nuove minacce è necessario adottare nuovi approcci alla sicurezza. Da questo punto di vista, l’Unione Europea – che non ha ancora sviluppato e forse non arriverà mai a costruire delle vere e proprie Forze Armate – ha la grande opportunità di caratterizzarsi come potenza civile (e non quindi solo militare) e contribuire alla sicurezza globale elaborando nuovi strumenti (diplomatici, economici e politici) per fare fronte alle sfide future. Del resto, affidarsi ai tradizionali (pur se collaudati) strumenti di reazione alla minaccia – lo si vede, ancora una volta, dai teatri di instabilità globale – potrebbe rivelarsi non solo inefficace, ma persino controproducente.
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