di Alessandro Campi
Il fallimento (tanto temuto quanto largamente annunciato) del Consiglio europeo in programma giovedì e venerdì prossimi, in cui si dovrebbero discutere nuove regole e procedure in materia di immigrazione e accoglienza, fa temere anche per il futuro del processo di integrazione continentale. In effetti non si era mai registrato, tra i Paesi membri, un simile livello di scontro: tra incomprensioni, accuse e personalismi esasperati. Ma come si è arrivati al punto potenziale di rottura? Colpa di chi?
L’Italia a guida grillino-leghista si trova sul banco degli imputati. Quelli utilizzati in particolare dal ministro degli interni Matteo Salvini sarebbero toni troppo polemici e aggressivi. Gli si imputa di essere in campagna elettorale permanente, avendo capito che l’esasperazione della tematica migratoria gli sta portando sempre più voti e consensi. Ma gli si addebita, insieme agli altri fautori della dottrina sovranista sparsi per il continente (da Orban alla Le Pen), anche un deliberato disegno disgregatore: paralizzare il funzionamento dell’Europa, sfruttando il momento oggettivamente difficile, sino a scardinarla dall’interno. Un bel favore fatto a Trump e Putin, di cui i populisti nostrani sarebbero pedine più o meno consapevoli.
In realtà quello cui stiamo assistendo è un gioco drammatico, nel segno degli equivoci e dell’ipocrisia, in cui le buone ragioni dell’Italia si somma alle colpe politiche e alla cattiva coscienza degli altri attori coinvolti. Soprattutto di coloro che in questi giorni – Macron in testa – si vanno ergendo a custodi dei valori di umanità contro i barbari che avanzano: uno schema forse efficace sul piano mediatico-propagandistico, ma di dubbia utilità e largamente falso.
Se oggi siamo in questa situazione, infatti, è anche perché si è destabilizzata la Libia, vitale per poter gestire e controllare i flussi migratori, con una guerra umanitaria dettata solo dall’ambizione fuori dalla storia della Francia a dettare legge in Africa: una responsabilità politica di cui l’attuale inquilino dell’Eliseo dovrebbe farsi carico invece di distribuire pagelle morali al prossimo. Se oggi si litiga sulla futura ripartizione dei profughi e dei richiedenti asilo – che hanno come mèta dei loro viaggi della speranza l’Europa e non la sola Italia – è anche perché le quote d’accoglienza a suo tempo stabilite e concordate non sono state rispettate dai Paesi che avevano l’obbligo, politico e morale, di farlo. Possibile che da parte dell’Unione non sia potuto studiare sino ad oggi un meccanismo sanzionatorio che costringa ognuno di fare il proprio dovere? Se oggi l’Italia si muove in una maniera finalmente più decisa, anche se poco rispettosa dei protocolli diplomatici, è anche perché averla lasciata sola ad affrontare quattro anni di ondate migratorie, nonostante le continue richieste d’aiuto rivolte ai nostri partner, non è stata da parte di questi ultimi una scelta lungimirante. La vittoria dei populisti di cui oggi ci si lamenta, sino a definirla una pericolosa infezione, forse non ci sarebbe stata se gli altri Stati europei si fossero dimostrati a suo tempo più collaborativi e solidali. Con in più il paradosso di vedersi oggi accusati di mancanza di spirito umanitario e di egoismo da Paesi che – a partire dalla Spagna – già da anni hanno sigillato le loro frontiere marittime e terrestri. L’umanitarismo è spesso un sentimento peloso e strumentale.
Ma se tutto ciò risponde al vero davvero non si comprende l’atteggiamento di quei settori della stampa e della politica italiana che, pur di criticare l’attuale governo, si stanno spingendo sino ad auspicarne la messa in quarantena da parte degli altri Stati dell’Unione europea. Senza nemmeno chiedersi se le posizioni critiche dell’Italia, a partire dalla sua legittima pretesa di non essere trasformata in una sorta di piattaforma logistica piantata nel Mediterraneo nella quale dovrebbero confluire tutti i flussi migratori dall’Africa, non abbiano un fondamento di verità. Coloro che inneggiano all’europeismo di Macron e lo invocano come salvatore forestiero nella loro battaglia contro il virus populista forse dovrebbero anche chiedersi quanto le sue proposte (da ultimo quella di creare hotspot a gestione europea sul territorio italiano) e il suo atteggiamento intransigente in materia di accoglienza entro in confini francesi siano in realtà penalizzanti per il nostro Paese e dettati da banali ragioni di realpolitica interna (non lasciare spazio alla destra lepenista). Certa sinistra italiana sembra davvero afflitta dalla storica ‘sindrome di Ludovico il Moro’: ci si appella ad un potere straniero senza rendersi conto che ciò comporta non la sconfitta del proprio nemico interno (ieri Berlusconi, oggi l’alleanza giallo-verde) ma la subordinazione dell’intera Italia a interessi che non sono i suoi.
Ciò detto, esasperare gli animi e accrescere le tensioni su una materia tanto delicata non serve a nessuno. L’immigrazione è una grande questione politica che può essere affrontata solo in una chiave europea. Se gli esponenti di punta dell’attuale governo (Salvini in testa) sbagliano nell’utilizzare parole che possono effettivamente creare, se mal interpretate, un sentimento collettivo di esasperazione e intolleranza, sbagliano soprattutto i nostri interlocutori europei nel non dare risposta alle legittime richieste del nostro Paese. Il problema, in questo momento, non è il populismo, ma l’Europa che usa il populismo come alibi per la propria l’impotenza decisionale e mancanza di una visione condivisa.
Risponde al vero, come dimostrano le statistiche di Frontex, che rispetto allo scorso anno non siamo in presenza di un’emergenza migratoria. Nell’ultimo anno gli sbarchi si sono effettivamente ridotti in modo drastico. Ma se gli spostamenti di popolazione sono, come si dice, un fenomeno epocale e destinato a crescere bisognerebbe allora approfittare di questa situazione di relativa calma per approntare regole nuove e per definire una nuova strategia comune in materia di immigrazione e accoglienza. Nelle condizioni di emergenza si decide sempre in modo contingente e occasionale, mai guardando i problemi in prospettiva.
Che la situazione sia molto delicata e a rischio rottura lo ha ammesso, nell’intervista concessa ieri al ‘Messaggero’, anche il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. In questo momento sembrano prevalere le chiusure e gli irrigidimenti, a partire proprio da un’Italia intenzionata a farsi sentire dai suoi interlocutori diversamente che nel recente passato. Ma da europeista pragmatico Moavero ha anche suggerito una possibile strada d’uscita. Basterebbe sedersi intorno ad un tavolo per valutare sul serio le proposte italiane, come quelle organicamente avanzate ieri, nel pre-vertice di Bruxelles, dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Discutere delle proposte non vuol dire accettarle in blocco. Ma sarebbe già un modo per uscire dall’impasse, basata su un malinteso senso dell’interesse nazionale spacciato per rispetto formalistico delle regole vigenti, nella quale ci si trova. Gli accordi di Dublino, che scaricano sul Paese di primo sbarco la verifica delle domande d’asilo e il dovere dell’accoglienza, sono evidentemente superati e inefficaci, visto come è cambiato nel frattempo il fenomeno migratorio e considerate le forme, ingovernabili soprattutto per l’Italia, che esso potrebbe assumere nell’immediato futuro. Chiedere oggi una responsabilità comune tra gli Stati europei sui naufraghi in mare, coinvolgendo negli sbarchi tutti i paesi che si affacciano nel Mediterraneo, chiedere di distinguere tra porto sicuro di sbarco e Stato competente a esaminare le richieste di asilo, chiedere infine la creazione di centri di accoglienza e verifica in territorio africano, arretrando così la linea geografica di controllo dei flussi, non è una provocazione populista. Ma il ragionevole punto di partenza di una trattativa diplomatica certamente complessa, ma il cui fallimento (sperando non ci sia) questa volta di certo non potrà essere imputato all’Italia.
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