di Francesco Cirillo*
Il recente volume di Alessandro Sterpa Il premierato all’italiana. Le ragioni e i limiti di una riforma costituzionale (Utet, Milano 2024, pp. 17) ambisce a collocarsi non solo nella discussione accademica ma, più in generale, nel dibattito pubblico relativo alla riforma costituzionale “Meloni-Casellati”, “partendo dall’esame del testo della riforma e del contesto della riforma”[1], secondo una prospettiva definita, originale ed articolata.
Una caratterizzazione essenziale dell’approccio dell’Autore al tema può essere fornita con ricorso alle premesse di metodo e di merito che ne ispirano e ne guidano l’indagine.
Innanzitutto, quanto alla generale questione della revisione costituzionale, Sterpa assume che, qualora «che la costituzione non riesca a imporre i principi e i valori di cui è portatrice […] costituisce un obbligo costituzionale, quasi un a-priori logico, mettere mano per aiutarla a tornare funzionalmente»[2]; dunque, la revisione costituzionale non è concepita come una forma eccezionale (e talora indebita) di intervento manipolativo, ma come un compito manutentivo che accompagna la comunità politica al mutare delle condizioni di fatto, risolvendosi ora nella necessità di interventi ordinari, ora di manutenzioni straordinarie.
In secondo luogo, l’Autore contesta la necessità – da più voci invocata – di direzionare la revisione del testo costituzionale ai soli modelli tratti dalle esperienze giuridiche straniere, esortando a una scelta non solo «tra ma anche oltre i modelli noti e sperimentati nonché tra i diversi bilanciamenti possibili con cui tenere insieme rappresentatività e decisionismo»[3]. Dunque, sulla base di tali premesse, sorge l’invito ad «accettare l’idea che in Italia si possa definire una forma di governo sui generis»[4], eludendo, cioè, la pigrizia argomentativa che vorrebbe limitare alla sola modellistica nota alla sola comparazione giuridica le soluzioni possibili; limitazione che peraltro precluderebbe lo sviluppo di un modello endogeno che risponda in modo pragmatico ai problemi del contesto cui si rivolge.
Così, se si assume necessario il compito manutentivo (che includa anche la revisione della forma di governo[5]), e si accetta che tale compito possa esercitarsi nella libertà dalle ispirazioni comparative, allora – questa la tesi principale esplicitata sin dal titolo – emerge una sorprendente continuità tra i tentativi di riforma, dalla bicamerale alla riforma “Berlusconi”, sino alla riforma “Renzi” e all’attuale proposta, nel delineare un possibile premierato all’italiana [6], che conservi il carattere parlamentare della forma di governo (i.e. il rapporto di fiducia) e il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, rafforzando in modo mitigato l’esecutivo[7].
Le circostanze donde scaturisce la riflessione dell’Autore possono essere riassunte in modo essenziale. La XIX Legislatura è caratterizzata – tra le varie – dall’avvio di un nuovo tentativo di riforma della Costituzione con riferimento alla forma di governo ossia al sistema dei rapporti tra gli organi dai quali scaturisce l’indirizzo politico della Repubblica. L’iter legislativo costituzionale ha preso le mosse da un disegno di legge del Governo presentato nel novembre 2023 ed oggi è in discussione alla Camera un testo frutto di un lungo lavoro di raffinamento svoltosi in Senato fino a giugno 2024.
I costituzionalisti, come già avvenuto in passato, sono divisi tra fautori del progetto e detrattori[8], in uno schema di analisi molto diversificate che occupano le pagine di giornali e di riviste scientifiche, oltre che delle aule del Parlamento con numerose audizioni, profilando un ulteriore ampliamento del dibattito a ridosso del probabile referendum costituzionale che si potrebbe tenere tra il 2025 e il 2026 allorché il Parlamento approvasse, come è probabile, il testo con una maggioranza assoluta ma inferiore ai 2/3. In breve, la proposta di riforma della forma di governo introdurrebbe un unicum rispetto ai modelli vigenti, secondo il quale il Presidente del Consiglio sarebbe sia eletto direttamente dai cittadini che bisognoso della fiducia parlamentare. Chiaramente, si tratta di un sistema sui generis in quanto diverso da un modello presidenziale (si pensi, nel caso, agli Stati Uniti dove il candidato deve ottenere la maggioranza dei grandi elettori e, solo nel caso in cui nessuno dei candidati raggiunga la quota necessaria, ai sensi del XII emendamento, si entra in una fase di contingent election in cui la camera bassa è chiamata a scegliere il vincitore, assegnando ai rappresentanti di ciascuno Stato un solo voto); come pure diverso dal modello semi-presidenziale francese, nel quale la fiducia è prevista nei confronti del Primo Ministro, ed è dunque ammessa la coabitazione tra Presidente della Repubblica e premier di diverso orientamento politico. Nondimeno, è pur vero che proprio la modellistica delle forme di governo dimostra che non si diano modelli puri, come tali implementati, senza adattamenti, nella realtà. Anzi, a ben vedere, proprio le esperienze costituzionali straniere attestano che l’uno o l’altro modello siano stati mitigati, se non anche resi spuri, dalle interazioni con il contesto storico. Ed è per queste ragioni che a più riprese si insiste sulla distinzione tra i modelli teoretici e le forme di governo specifiche, che dovunque – e quindi anche in Italia – devono rispondere alle esigenze del caso, rifuggendo improbabili speculazioni utopiche e svalutando i pregi delle soluzioni (anche, ma non solo) di compromesso.
In questo scenario l’autore si concentra – il filo rosso della prima parte del libro – innanzitutto sui quarant’anni di tentativi di riforma, i quali tutti muovevano dall’assunto di numerose criticità nel funzionamento dell’assetto parlamentare disegnato nella Costituzione del 1948. D’altronde, la necessità di rafforzare la legittimazione diretta dell’esecutivo e di stabilizzare i governi in modo da dare forza e continuità all’indirizzo politico non era stata proposta solo nel 2005-2006 con la riforma “Berlusconi” e nel 2016 con quella Renzi, ma appariva anche nel programma de L’Ulivo del 1995 (Tesi n. 1). Si consideri, tra l’altro, che pulsioni riformatrici nell’ottica dell’efficientamento del Parlamento, se non anche della compressione della libertà del mandato parlamentare in contrasto alla prassi trasformistiche, hanno caratterizzato persino alcune stagioni del Movimento 5 Stelle (non da ultimo, si pensi alla riforma del 2020). Come accade, dunque, che la diffusa convinzione nella necessità di intervenire sul testo costituzionale e la possibile convergenza tra le soluzioni prospettate conducano sempre a uno scontro divisivo e identitario? A questo interrogativo Alessandro Sterpa fornisce una risposta adeguata, evidenziando che, anche in ragione dell’iter legis aggravato che connota le riforme, il dibatitto sulle proposte esponga la maggioranza di turno a un plebiscito sulla propria permanenza a Palazzo Chigi, cosicché il dibattito sul merito sia del tutto offuscato dal conflitto politico. Ma proprio questa circostanza, che certo ha segnato le esperienze più recenti, non può caratterizzare né le intenzioni, né gli esiti di un’indagine che voglia soffermarsi in modo analitico su le ragioni e i limiti di una riforma costituzionale.
Il volume, quindi, esamina la proposta del c.d. “premierato” che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio nell’ambito di un impianto che resta parlamentare (il Governo deve avere appunto la fiducia delle Camere che possono sfiduciarlo con automatico ritorno al voto) e ragiona sulle necessarie norme primarie di completamento: soprattutto, sulla legge elettorale[9] e la legislazione di contorno. In particolare, Alessandro Sterpa (in basso, nella foto) illustra come il Parlamento possa – proprio con la riforma – rafforzare un ruolo che oggi è semplicemente degradato nella sua capacità di indirizzo[10]. Si pensi al solo dato dell’adozione di un decreto-legge a settimana con cui il Governo di fatto ha esautorato la funzione legislativa delle Camere, insieme con la matrice unionale di un’altra cospicua parte del diritto prodotto. Secondo l’Autore, ad esempio, introducendo l’incompatibilità del ruolo di ministro e sottosegretario con quella di parlamentare, si rafforzerebbe la capacità del Parlamento di bilanciare l’esecutivo. Inoltre, si ricordi che il testo prevede che, qualora non si arrivi allo scioglimento “dovuto” delle camere (quando il Premier eletto sia sfiduciato o quando si dimetta e chieda al Capo dello Stato nuove elezioni), il Parlamento resti in grado di formare un nuovo Governo alla cui guida deve però esservi un parlamentare eletto nella maggioranza del Premier uscente[11].
Neppure si potrebbe sostenere un indebolimento del ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica[12] visto che sul punto, fa notare Sterpa, ci sarebbe una confusione di fondo. In questi anni, stante l’instabilità dei governi, abbiamo appostato proprio sul Capo dello Stato le pretese di tenuta del sistema politico, tanto da arrivare ad eleggere per due mandati gli ultimi due Presidenti della Repubblica. Quanto è accaduto, sostiene l’Autore, costituirebbe un’anomalia. Il compito del Presidente, detto altrimenti, è stato fattualmente ampliato nel corso degli ultimi decenni, ben oltre la mera funzione di garanzia della formazione e degli effetti dell’indirizzo politico, sino a proiettarsi verso la definizione dell’indirizzo politico stesso. S’indebolirebbe, in tal senso, il sovrappiù di aspettative che la precarietà parlamentare avrebbe – ingiustificatamente – alimentato.
D’altronde, rispetto ad ora, il Capo dello Stato potrebbe adottare alcuni atti senza più la controfirma dell’esecutivo (dall’indizione dei referendum alla promulgazione delle leggi e all’emanazione dei decreti) conquistando così ambiti di discrezionalità oggi non presenti e dunque rafforzandone la funzione. Non suscita problemi, sempre secondo l’Autore, neppure l’elezione del Capo dello Stato che è oggi già a disposizione della maggioranza di governo. Anzi, dopo la riforma, il voto dei 2/3 del Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali sarà necessario non solo per tre scrutini (come ora) ma per sei. Solo dopo questi tentativi sarà possibile eleggere il Capo dello Stato con la maggioranza assoluta.
Il libro di Sterpa, quindi, costituisce un lucido tentativo di analizzare i vantaggi di una riforma tesa a rafforzare la legittimazione diretta dell’esecutivo in una fase istituzionale nella quale i partiti politici, immaginati nel 1946-48 come rilevanti attori istituzionali, legittimati dalla partecipazione democratica degli iscritti e da grande elaborazione teorica, semplicemente non sono più tali, ma costituiscono organizzazioni nelle mani di pochi, non di rado legati da vincoli privati e oscuri. Stante la crisi dei partiti, afferma Sterpa, perché non sostituirli finalmente con il voto dei cittadini, come abbiamo già fatto a livello comunale e regionale, seguendo modelli che hanno coniugato la partecipazione democratica con una migliore individuazione delle responsabilità politiche?
Il lettore, tanto più se avverso alle aperture dell’Autore, potrebbe ritrovare un’analisi approfondita delle ragioni che hanno accompagnato con continuità i diversi ed eterogenei tentativi di riforma, senza che siano celati i dubbi che la proposta solleva. Certamente, il testo in esame presenta criticità che, non da ultimo, sono anche il risultato di scelte di compromesso, oltreché della ricerca di un rafforzamento dell’azione politica. In ogni caso, pur volendo ammettere i possibili limiti dei tentativi finora esperiti, come si potrebbero trascurare le aporie e le inefficienze del sistema attuale? Sarebbe utile, in questo scenario, invocare una rinascita del parlamentarismo incentrato sul ruolo novecentesco dei partiti? O non è forse meglio ricondurre le dinamiche politiche attuali a forme costituzionali più adeguate?
[1] A. Sterpa, Il premierato all’italiana. Le ragioni e i limiti di una riforma costituzionale, Utet, Milano 2024, pp. 12-13. Sin d’ora, dove non indicato, le pagine si riferiscono a questo volume.
[2] P. 27
[3] P. 29
[4] P. 78
[5] P.e., con G. Ferrara, L’altra riforma, nella Costituzione, ManifestoLibri, Roma 2002.
[6] Sul punto, cfr. T.E. Frosini, Premierato e sistema parlamentare, in Astrid-online.it, p. 6 ss.
[7] La definizione più completa del concetto è a p. 136: «possiamo dunque definire questa nuova forma di governo nazionale come una forma di tipo parlamentare (resta il rapporto fiduciario tra Parlamento ed esecutivo), iper–razionalizzata (elezione contestuale del Presidente del Consiglio e della maggioranza parlamentare), ma a gestione mitigata (derogabilità del meccanismo simul stabunt, simul cadent Il ruolo che resta rilevante spesso decisivo del presidente della Repubblica)».
[8] Un utile quadro del dibattito appena prima della formulazione della proposta, con riferimento ad un Autore di segno opposto: A. Lucarelli, Premierato e riforme costituzionali: il mito della governabilità, in «Rivista AIC», 4, 2023, p. 296 ss.
[9] Diffusamente, ma in particolare p. 138 ss. Ben più di un indizio induce l’Autore a prospettare il ballottaggio, se si vuole la formula del cd. “Sindaco d’Italia”, come unica compatibile (cfr. anche p. 97). Sul punto, c’è chi invoca una torsione verso un “premierato soft”, che sia il risultato di un intervento solo sulla legge elettorale (a. spadaro, Dal “parlamentarismo” al “premierato”: le quattro vie percorribili, in «Forum di Quaderni Costituzionali», 2, 2024, p. 109 ss.).
[10] Un’obiezione che si dirige anche verso le posizioni più inclini al rafforzamento del Parlamento in luogo dell’esecutivo (p.e. A. Algostino, Premierato… purché capo sia: il fascino della verticalizzazione del potere e i rischi del suo innesto in una democrazia spoliticizzata, in «Federalismi.it», 3, 2023, pp. 130-131).
[11] Invero, proprio la figura del premier non eletto suscita diverse critiche, sia per la poca chiarezza del testo, sia per potenziali effetti distorsivi che potrebbero attribuirgli un ruolo tutt’altro che secondario (p. 100 ss.).
[12] Cfr. p. 105 ss.
* Assegnista di ricerca, Università degli Studi della Tuscia
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