di Alessandro Campi

untitledIl 2015 è stato un anno importante dal punto di vista elettorale. Tra presidenziali, legislative e amministrative, si è votato, per limitarci all’Europa e ai suoi confini immediati, in Portogallo, Croazia, Grecia, Finlandia, Danimarca, Italia, Estonia, Gran Bretagna, Polonia, Svizzera, Turchia, Francia e Spagna. Ne sono derivati, in molti casi, risultati che hanno messo in discussione gli equilibri politici tradizionali e fatto emergere (o consolidato) nuovi attori politici: quei movimenti e partiti definiti convenzionalmente “populisti” che, se da un lato rappresentano ormai il megafono di ogni malessere dei cittadini, dall’altro sono divenuti lo spauracchio, spesso agitato ad arte, di tutti le classi dirigenti europee.

Il 2016 avrà minori scadenze alle urne. L’appuntamento elettorale più importante sarà sicuramente rappresentato dalle presidenziali statunitensi, in programma nel mese di novembre. Dopo il primo inquilino di colore, alla Casa Bianca potrebbe insediarsi la prima donna, ancorché rigorosamente WASPs. Oppure, se le cose dovessero andare male, potrebbe averla vinta un pazzo scatenato, ma nella storia di quel Paese questa non sarebbe una novità: secondo complottisti e dietrologi metà dei presidenti americani sono stati affetti da gravi disturbi della personalità. Ma forse conviene prendere questa statistica con le molle.

Il voto americano, in una fase della politica internazionale particolarmente travagliata da guerre e conflitti d’ogni tipo, sarà come sempre importante per i destini dell’umanità: se è esagerato pensare che gli Stati Uniti siano il gendarme del mondo, è sicuramente vero che le decisioni dell’inquilino della Casa Bianca influenzano e condizionano pesantemente quelle di tutti gli altri attori sulla scena globale.

Sul futuro del pianeta per fortuna non influiranno le amministrative in programma in Italia nel giugno del prossimo anno. Il che non vuol dire che questa scadenza sia da sottovalutare o da leggere solo come un fatto interno. Si è appena visto, nel caso della Francia, come delle semplici elezioni cantonali siano state sul punto di trasformarsi, se avesse vinto la Le Pen, in un tornante della storia europea.

Non sono da sottovalutare innanzitutto perché si deciderà la guida politico-amministrativa di alcune delle più importanti città italiane: da Roma a Milano, da Napoli a Bologna, da Torino a Salerno. Si tratta, nei casi appena citati, di veri e propri conglomerati metropolitani, alle prese con problemi assai complicati: dall’inquinamento atmosferico alla congestione del traffico, dal degrado delle periferie urbane alla gestione della sicurezza, dall’aumento della marginalità sociale al declino di interi comparti produttivi. Va da sé che è dal buon governo di queste realtà che dipende in gran parte il buon funzionamento dello Stato centrale.

Ma l’appuntamento italiano del prossimo anno sarà importante soprattutto per capire come i partiti tradizionali, di destra e di sinistra, si attrezzeranno per fare fronte ai cambiamenti strutturali che stanno interessando le democrazie europee (compresa appunto quella italiana). La risposta ai populismi è stata sinora nel segno di una loro crescente demonizzazione e dell’invito a fare muro contro il loro carattere potenzialmente eversivo. Ma è uno schema che – anche se di recente applicato con successo in Francia contro il Front national – alla lunga rischia di non funzionare. Anzi, potrebbe persino favorire tutte quelle forze che tendono a presentarsi agli occhi dei cittadini come alternativa radicale ad un sistema di potere denunciato come intrinsecamente inefficiente e globalmente corrotto.

Quello che invece servirebbe è rimuovere le cause, non banalmente riducibili alla protesta, che spingono pezzi crescenti dell’elettorato, sganciato ormai dalle tradizionali appartenenze, a votare per queste formazioni. Cause che hanno a che fare da un lato con il perdurare della crisi economica (col suo lascito di povertà e insicurezza sociale) e con le cattive ricette messe in campo per combatterla; e dall’altro con l’incapacità dei partiti tradizionali a rinnovarsi, al di là dei buoni propositi, sul piano del linguaggio, del personale politico, delle idee e dei comportamenti.

La lezione delle elezioni europee del 2015 è che è finito il ciclo storico-politico iniziato dopo la Seconda guerra mondiale. La legittimità e il buon funzionamento dello Stato sociale si fondava, in Italia come altrove, sull’espansione indefinita della spesa statale e sulla redistribuzione a pioggia delle risorse pubbliche in cambio del voto ai partiti di governo. Ma la crisi economico-finanziaria partita nel 2008 ha definitivamente inceppato questo meccanismo. Al tempo stesso, le famiglie ideologiche che avevano contribuito a strutturare le democrazie dei grandi Paesi europei, in particolare quella socialista e quella cattolico-popolare, sembrano aver esaurito il loro ciclo vitale, come dimostra il fatto che – oltre ad aver ceduto ad una gestione sin troppo pragmatica e spregiudicata del potere – non riescono più ad intercettare il consenso delle nuove generazioni o a proporre progetti credibili di sviluppo economico o di governo delle società.

Se prese sul serio, le amministrative del prossimo giugno dovrebbero dunque essere l’occasione offerta alle forze politiche che pretendono di opporsi a quelle populiste (in Italia rappresentate in particolare dal M5S) per cercare di ristrutturare, secondo nuove regole e visioni innovative, la loro offerta agli elettori. Per avviare processi di selezione del proprio personale politico, a partire appunto dal livello locale e territoriale, che non siano più basati sulla ricerca del candidato di bella presenza o di provata onestà personale (si è visto quanto questi criteri abbiano contribuito assai poco al rinnovamento della politica). Per mettere infine nero su bianco programmi di governo credibili e realistici, invece di alimentare promesse destinate ad essere inevitabilmente frustrate. Diversamente, saranno l’ennesima occasione persa e si trasformeranno in carburante per i demagoghi d’ogni colore.

 

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