di Alessandro Campi
Si stanno giocando molte partite contemporaneamente in quell’immenso stadio a cielo aperto che è ormai diventato l’Italia, con i suoi abitanti abbarbicati sulla tribune e sulle curve a fare il tifo per la propria squadra e a inveire contro gli avversari e con un solo arbitro, ancora lucido ma palesemente stanco, che cerca faticosamente di imporre a tutti i giocatori in azione sui diversi campi il rispetto delle regole comuni.
C’è quella all’interno del Pdl-Forza Italia, all’apparenza la più avvincente, anzi quella considerata decisiva per le sorti del governo e della politica nazionale, ma è anche quella che agli spettatori potrebbe riservare le delusioni più cocenti. Dallo scontro tra l’ala dura del berlusconismo e l’ala moderata-riformista ci si aspetta (ma è un’attesa che dura da circa vent’anni) la nascita di un centrodestra di stampo finalmente europeo, liberale invece che populista, alieno da ogni forma di radicalismo verbale e ideologico, che sia un partito vero e non la proprietà di un uomo solo.
Ma si è visto ieri che nel mondo berlusconiano basta evocare la triste sorte di Fini – prima esposto al pubblico dileggio, poi annichilito politicamente – per diffondere timori personali e far rientrare qualunque proposito battagliero. In un movimento politico fondato dalle origini sul principio della lealtà personale, cieca e assoluta, è difficile aspettarsi gesti di autonomia e scatti d’orgoglio. Magari risentimenti e malumori personali, ma il coraggio di una rottura politica è un’altra cosa. Un nuovo centrodestra, che non sia un’accozzaglia di piccole formazioni centriste e di una pattuglia di delusi del berlusconismo in cerca di nuovi approdi, oggi potrebbe puntare su un solo leader: Angelino Alfano. Ma con ogni possibile fantasia, è difficile vederlo guidare una scissione che dovrebbe anche essere un progetto ideologicamente alternativo a ciò che è divenuto il berlusconismo terminale. E infatti ieri – nel faccia a faccia tra il Cavaliere e i suoi gruppi parlamentari – ogni dissenso sembra essere magicamente rientrato, con il solo Cicchitto rimasto a chiedere il dibattito al termine del soliloquio del capo: l’addio al governo è definitivo, giusto il tempo di votare qualche provvedimento economico e poi alle urne.
C’è poi la partita (infinita) interna al Pd. Sembrava fatto l’accordo per le primarie (regole e data di svolgimento). E pareva scontato l’esito delle medesime, con Matteo Renzi in corsa pressoché solitaria verso la segreteria, trampolino di lancio per traguardi ben più ambiziosi. Ma “un fulmine a ciel sereno” (copyright D’Alema), vale a dire la crisi del governo Letta, è intervenuto a modificare radicalmente la situazione. Per gli oligarchi del Pd, che all’ascesa del Sindaco di Firenze a loro guida politica proprio non intendono rassegnarsi, non poteva verificarsi congiuntura più favorevole. Si parla ormai apertamente di bloccare la procedura congressuale e di finalizzare le primarie alla scelta del candidato premier per il centrosinistra, con l’idea (coltivata ormai anche dal diretto interessato) di puntare tutte le carte su Enrico Letta.
Ma Renzi starà a guardare mentre lo chiudono in trappola per la seconda volta? Il suo silenzio di queste ore è indicativo. Voleva le elezioni anticipate, ma ora si rende conto che l’appuntamento potrebbe risultargli fatale. Pensava di conquistare il Pd, ma rischia di doversene prima o poi staccare se vuole fare politica anche fuori da Firenze.
C’è ancora la partita che Grillo e i suoi stanno conducendo contro l’intero sistema politico, con un crescendo di veemenza e aggressività che non promette nulla di buono. Alle prime avvisaglie di crisi e di possibili elezioni anticipate, subito richieste a gran voce, hanno chiarito che il loro obiettivo a questo punto è quello di vincere a mani basse, di prendersi il governo e l’Italia e di costringere gli avversari sconfitti all’esilio o alla fuga, a meno che non accettino di essere portati alla sbarra per rendere conto ai cittadini delle malversazioni che hanno compiuto. Si sono già chieste le dimissioni di Napolitano, al quale si imputa non di difendere la costituzione, ma di violarla sistematicamente. Ieri come gesto simbolico si è marciato sulla Rai, accusata di disinformazione, e si è detto che i direttori delle sue testate giornalistiche verranno stanati uno ad uno nelle loro case. Non è lo squadrismo violento di Alba Dorata, ma è comunque quel tipo di intolleranza che già in passato ha condotto all’autodistruzione molte democrazie.
C’è inoltre la partita per il governo, che è poi quella che dovrebbe interessare di più gli italiani, se è vero che rischiano di pagare un prezzo assai alto, in termini economici, dalla sua caduta. Si punta a tenerlo in carica, ma nessuno vuole una maggioranza rabberciata fondata su transfughi e senatori a vita. Meglio le elezioni anticipate, dicono tutti. L’alternativa, vista anche la reazione dei mercati ai primi segnali di crisi, è una maggioranza solida numericamente, il che però significa includere nuovamente il Pdl: qualche giorno di bonaccia e dopo comincerebbero le fibrillazioni cui da mesi siamo abituati. C’è poi l’ipotesi, l’ultima prima del ritorno alle urne, di un governo di scopo che vada da Monti a Grillo e che abbia come unico obiettivo una nuova legge elettorale, ma anche per questa soluzione i numeri sono ballerini. Dunque la china sembra fatalmente andare verso nuove elezioni, precedute da una campagna elettorale che si può già immaginare di una inaudita violenza verbale.
C’è infine la partita solitaria del Cavaliere: un tormento personale che si somma ad uno stato di evidente confusione politica. “Ho deciso io le dimissioni dei ministri, nessuno mi ha condizionato”, ha detto ieri Berlusconi incontrando a Roma – finalmente uscito dal bunker di Arcore, dove in questi giorni è parso prigioniero dei suoi fantasmi e di un manipolo di fedelissimi inclini al fanatismo – i dirigenti del suo partito. Il che è probabilmente vero: ma resta da capire quanta lucidità e razionalità ci siano ormai in un uomo che ha paura (forse legittimamente) e che non vuole rassegnarsi a uscire di scena.
Il problema è che tutte queste partite in simultanea, con i giocatori che spesso di incrociano sul terreno facendosi lo sgambetto e pensando solo al proprio tornaconto, rischiano di produrre come risultato una sconfitta collettiva dolorosa. Chi pensa in questo frangente di potere avere la meglio sull’avversario, perché più furbo o più bravo, forse non ha compreso che quella che abbiamo descritto non è una competizione, piuttosto la danza sgraziata di un intero Paese sul limitare del baratro. Caderci dentro ormai è un attimo.
* Apparso come editoriale sui quotidiani “Il Messaggero” di Roma e “Il Mattino” di Napoli il 1° ottobre 2013.
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