di Francesco Minelli
Ogni civiltà, sosteneva Indro Montanelli, si è sempre proposta, come ultimo e supremo sforzo, “l’elaborazione di un prototipo sul cui stampo ricalcare l’umanità che ne partecipa”. “I Greci – aggiungeva il giornalista toscano – ebbero il kalòs-kagathòs, i Romani il civis (tutt’uno col vir), gl’Inglesi il gentleman, il Rinascimento italiano il Signore”.
Rielaborato in chiave novecentesca, il positivo modello del “signore” –
di Francesco Minelli

Ogni civiltà, sosteneva Indro Montanelli, si è sempre proposta, come ultimo e supremo sforzo, “l’elaborazione di un prototipo sul cui stampo ricalcare l’umanità che ne partecipa”. “I Greci – aggiungeva il giornalista toscano – ebbero il kalòs-kagathòs, i Romani il civis (tutt’uno col vir), gl’Inglesi il gentleman, il Rinascimento italiano il Signore”.

Rielaborato in chiave novecentesca, il positivo modello del “signore” – accuratamente disgiunto dalle proprietà e dai denari, riferito alla dignità delle maniere e non al possesso, incentrato sulla squisitezza dei sentimenti e non sulla ricchezza – fu riproposto da Giovanni Ansaldo in un utile e piacevole volume, ora pressoché dimenticato, apparso per la prima volta nel 1947. Nel suo “Il vero Signore. Guida pratica di belle maniere”, l’autore – in assoluto una delle più grandi figure del giornalismo, non solo italiano – compendiava le regole della cortesia, esaltando la dignità e il decoro.

Riletto oggi, quel manuale di galateo borghese muove a due reazioni complementari: da un lato provoca un sorriso lieve (alcuni comportamenti e situazioni sociali sono oramai del tutto anacronistiche), dall’altro lato non può non suscitare una qualche amarezza (alcune norme di civile convivenza, pur elementari, sembrano in via d’estinzione).

Il modello di bon ton offerto da Ansaldo prevede un articolato corpo di consigli e precetti. Si va dal come allevare un bambino – non farne un “bambolotto”, ma vedere in lui, fin da piccolo, “l’uomo che un tempo se ne svilupperà fuori” – al come comportarsi a tavola: “la tavola più importante del mondo, per il vero signore, è la tavola di tutti i giorni”, quella decorosa dove siede quotidianamente più o meno allo stesso orario, giacché le case in cui “non si sa mai a che ora si mangia, non sono case, sono locande”. Si passa dalla necessità di evitare “aneddoti da postribolo” al comportamento “da soci rispettosi delle buone usanze” che dovrebbero osservare tutti i membri dello “specialissimo club di Montecitorio”. Chi incarna le buone maniere cura l’aspetto esteriore a partire dal vestiario (“l’eleganza degli abiti è il riflesso di un atteggiamento dello spirito”), nel linguaggio di tutti i giorni rinuncia al “tu” troppo facile, non ha bisogno di credersi un “perfetto democratico”: “In Italia – scriveva Ansaldo – siamo troppo propensi a promuovere tutte le relazioni al rango di amicizie, e tutte le amicizie al rango di amicizie intime. (…) L’Italia è un paese malato di troppo sole e di troppo ‘tu’”; della seconda persona singolare – aggiungeva – andrebbe fatto un uso “strettissimo”, meglio preferire il “lei”, “un’ottima naftalina per preservare la stoffa dell’amicizia”. Il “vero signore” rifugge le maldicenze, rifiuta le passioni “infantili e barbariche”, non segue le mode – poiché ha stile -, evita le “scugnizzerie”, non parla a voce troppo alta e non gesticola. Quanto al telefono, ammoniva il giornalista, deve essere usato con attenzione e discrezione: un uomo non dovrebbe “vivere di telefono”.

I modelli e i suggerimenti proposti da Ansaldo sembrano oggi preistoria. Il codice della buona educazione pare oramai sconvolto, soprattutto ad opera della televisione. Il tipo-umano plasmato ad immagine del “Grande Fratello” impera. Rispetto al contegno del “vero signore”, la nostra quotidianità, anemica di buone maniere, si caratterizza per una sorta di “anti-galateo”: i bambini sono spesso tiranni che comandano mamma e papà; la sciatteria è quasi uno status symbol; la volgarità e l’indecenza sono proprie di ogni contesto, ivi compresi Camera e Senato (tant’è che sulle risse parlamentari c’è perfino una discreta letteratura); l’uso ubiquo e falsamente egalitario del “tu” sta eclissando il “lei”. Ma il compendio della maleducazione postmoderna risiede probabilmente nell’uso selvaggio del telefonino. Il cellulare – emblema del multitasking, dell’abitudine a compiere più operazioni contemporaneamente, tanto al volante quanto a tavola o a passeggio – è una protesi tecnologica di cui spesso si abusa. Dall’impiego ossessivo derivano malattie – la “sindrome compulsiva da telefonino”- e tanti, troppi incidenti stradali: si calcola che chi parla al cellulare abbia, di fronte ad un ostacolo, tempi di reazione ridotti della metà.

Recuperare un minimo di bon ton, aspirare a diventare “veri signori” – una categoria, sosteneva Montanelli, “che è impossibile estinguere” – aiuterebbe la civile convivenza, limiterebbe gli isterismi e, nel caso del telefonino, inciderebbe positivamente sulla salute. Propria e degli altri, soprattutto quando si è alla guida.

 

Giovanni Ansaldo, Il vero signore. Manuale di Belle Maniere, Longanesi, Milano, 1985, pp. 416, Euro 13

 

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