di Danilo Breschi
Quante volte avete sentito denunciare la decadenza dei nostri tempi moderni per il fatto che la politica non ha più ideali e che è stata ridotta a mera questione di “amministrazione”? Solitamente la giaculatoria proviene dai ceti intellettuali, variamente definibili e variamente qualificati: insegnanti, professori universitari, giornalisti, comunque gente che si dà un tono o che ha lunga militanza che risale ai giorni in cui si lottava per un ideale. “Noi credevamo”, insomma, o qualcosa del genere.
In un saggio del 1941, pubblicato su “La France Libre”, il grande pensatore politico francese Raymond Aron affermò che “l’autentica morale delle democrazie è la morale dell’eroismo, non del godimento”. In questi tempi di crisi economica, per i quali si può ricorrere alla stessa espressione che Churchill usò nel 1940, ovvero che ci attendono tempi di “sangue, fatica, lacrime e sudore”, un’affermazione come quella di Aron, coeva e ispirata proprio dalla tenace resistenza inglese ai bombardamenti tedeschi, appare quanto mai seducente e illuminante per l’oggi. Se poi l’applichiamo all’Italia degli ininterrotti scandali per corruzione e concussione, per presunti accordi tra pezzi di Stato e mafia, quelle parole risuonano potenti in tutta la loro nobiltà d’intenti.
La questione del rapporto tra democrazia e virtù, in generale tra buongoverno ed educazione civica applicata e praticata, è nota da molto tempo. È senz’altro alla base della tradizione repubblicana, che ha una lunga e nobile tradizione italiana, tant’è che molti studiosi la fanno risalire a certe pagine di Machiavelli. Sempre entro i nostri confini, possiamo indubbiamente vantare Mazzini e la sua predicazione in epoca risorgimentale, fondamentale proprio perché alimentò molti giovani cuori con ideali di sacrificio e dedizione alla causa dell’indipendenza e dell’unità nazionale. Il rapporto tra ethos e governo del popolo è nodo cruciale che troppo spesso si è dimenticato. Difficile farne oggetto di predicazione, se non si parte da un ripensamento del ruolo della scuola e dell’insegnamento pubblico. In tempi in cui si sono praticamente smantellate le facoltà universitarie di scienze politiche, sopravvissute qua e là grazie alla lungimirante tenacia di alcuni atenei, risulta difficile imbastire un ragionamento credibile e condivisibile sull’importanza della trasmissione alle nuove generazioni di saperi legati all’arte della politica e di conoscenze relative ai fondamenti dei sistemi democratici, mutevoli per forma di governo ma costanti per presupposti culturali e morali. Da dove potremo attendere l’arrivo di nuove classi dirigenti per l’Italia in spaventoso deficit di leadership collegiali e idee programmatiche?
Non sono convinto che la crisi odierna della politica nostrana sia dovuta alla perdita degli ideali, sovente ridotti a splendenti vessilli da agitare convulsamente in piazze gremite per il comizio di turno. Bisognerebbe essere proprio a digiuno di storia, anche di quella a breve-medio termine della nostra vicenda repubblicana, per affermare con disinvoltura che si stava meglio quando si stava peggio, ovvero che ai tempi dei grandi partiti di massa, del Pci e della Dc, e dei grandi ideali, comunismo e cattolicesimo politico, le virtù in politica brillavano e si incarnavano in migliaia di gestori della cosa pubblica. Non possiamo generalizzare e appiattire ogni cosa, per quello stesso senso storico rivendicato poco fa, ed emerge quindi con forza la sensazione che di una slavina, o progressiva discesa, si debba parlare per il caso italiano. Come a dire che da un più si è passati ad un meno, in termini di condotta etica negli affari pubblici. Ma non è certo dall’avvento dell’era post-ideologica, degli anni del cosiddetto “riflusso”, ovvero gli Ottanta del Novecento, che la politica corrotta o meramente clientelare e affaristica si è fatta strada in Italia. Ripeto: è un argomento che non mi convince da un punto di vista storico. Altrimenti non si spiega com’è che il debito pubblico in Italia abbia cominciato a crescere dal 1971, o giù di lì, ossia nel momento di massimo richiamo degli ideali e dei sogni in politica.
Non dobbiamo mai dimenticarci che quanto emerso a partire dal 1992 con l’inchiesta di Mani Pulite era solo il tetto di un edificio costruito nei molti decenni precedenti da un sistema partitocratico che aveva cominciato a funzionare, tramite un uso distorto del denaro pubblico, sin dalla seconda metà degli anni Cinquanta. I politologi ci potranno spiegare che fu anche il modo con cui si cercò di ovviare all’impossibilità di dare sbocco all’alternanza di governo, ovvero alla fisiologia di un sistema democratico liberale rappresentativo. E, com’è noto, se la fisiologia viene bloccata, subentra la patologia. Se ne ottenne in compenso una relativa pace sociale, e la congiuntura internazionale unita a condizioni di partenza proprie di un’economia ancora poco sviluppata, o frenata dalla lunga e disastrosa guerra, consentirono quella diffusione del benessere che, ben gestita dall’aurea regola contadina del risparmio, ci ha portato a poter oggi galleggiare nell’alta marea dell’odierna crisi finanziaria globale.
Siccome la storia politica dell’Italia contemporanea non la si insegna ancora con il dovuto approfondimento e la necessaria libertà critica, risulta difficile comunicare il fatto che oggi noi siamo chiamati a sciogliere nodi – tra politica e malaffare, inefficienza, non progettualità in termini di politica industriale, innovazione tecnologica, ecc. – che sono stati intrecciati molti decenni addietro. E certamente, proseguendo, gli errori sono aumentati in numero o si sono aggravati per mancanza di riforme, ossia correzioni e aggiustamenti a fini di pubblica utilità. Non si tratta di condannare, anche se di colpe e recriminazioni ce ne sarebbero da avanzare, e non poche, ma di comprendere perché poco più di vent’anni fa eravamo la quinta o sesta economia mondiale, ed oggi rischiamo la bancarotta. E non basta a spiegarlo il contesto internazionale, pur radicalmente mutato, ché altrimenti non si capirebbe perché non tutta l’Europa, nonostante difficoltà comuni, marcia alla stessa velocità da lumaca della nostra economia. E le sfide che il crollo del comunismo ha posto, ad esempio, alla Germania non sono certo state da meno di quelle innescate all’interno del contesto italiano.
E allora torniamo alla questione iniziale, e chiediamoci se quel che oggi ci blocca, o rovina addirittura, sia o non sia la derubricazione della politica a semplice amministrazione, a questione di buon governo della città e del territorio, magari circoscritto entro limiti ben precisi. Non si può ridurre la politica ad un’assemblea condominiale! obbietterebbero stizziti molti benpensanti. Di certo, controbbietterei, non si migliora la società se non si comincia dalla banale partecipazione alla riunione del proprio condominio. E, ancor di più, se non ci si cura dello stato di salute del proprio quartiere, e quindi della propria città, specialmente se di dimensioni contenute, com’è nel caso della stragrande maggioranza dei comuni italiani.
Si avanza qui una proposta che è tanto provocatoria quanto seria nelle istanze di fondo che la animano. A chi rivendica una politica fatta in nome degli ideali e della passione si risponde che l’intento è nobile e condivisibile, lo dico sinceramente e senza alcuna velata ironia, ma per questo motivo è opportuno che ogni carica pubblica sia ricoperta a titolo gratuito, senza prevedere alcun compenso, a parte un minimo rimborso spese. Vista la quota di spese improduttive o dirottate a fini privatistici e clientelari, dovrà circolare assai meno denaro pubblico e le casse di uno Stato centrale si riempiranno di quel tanto che basta per sostenere i cardini del welfare: sanità e istruzione – e quel “tanto” diverrebbe assai meno di quanto si pensi. A questo punto le tasse si abbasserebbero sensibilmente e i famigerati “costi della politica” risulterebbero finalmente tagliati in nome di una politica intesa non più come professione ma come servizio volontario e no profit, finalizzato alla realizzazione di sogni e ideali di solidarietà e promozione sociale.
I soldi, molti, rimasti nelle tasche dei cittadini avrebbero la destinazione che quella stessa cittadinanza riterrebbe più opportuna. Le strade che a questo punto si aprono sono due: o ciascuno cura gli interessi propri, pensando di potersi chiudere a riccio e proseguire beato e prospero nel risparmio e nella spesa dei propri redditi ignorando contesto e relazioni, oppure avverte la necessità di usare parte delle proprie risorse economiche secondo una scala di priorità che solo una discussione organizzata, una messa in comune dei problemi e delle ipotesi di soluzione, potrebbero definire. Il primo, naturale spazio di esercizio di organizzazione e gestione della convivenza, cioè una cosa che si chiama “politica”, potrebbe essere benissimo il proprio quartiere di residenza. Lasciati a se stessi, eccezion fatta per i servizi minimi essenziali del welfare, i residenti di un quartiere avvertirebbero ben presto l’urgenza di organizzarsi e investire su quell’ordine, inteso non solo come sicurezza ma come obbligazione reciproca, fatta di diritti e di doveri, che ogni costituzione politica implica.
Con problemi così vicini e così toccanti, ma anche così circoscritti, come quelli relativi alla vita quotidiana del proprio quartiere, sarebbe lampante e ineludibile tutta la necessità della partecipazione e dell’impegno diretto, ovviamente graduato e scadenzato, nonché conciliato con le attività lavorative di ognuno, sempre meno localizzate entro lo stesso spazio di residenza. È forse questo l’eroismo richiesto da Aron per il mantenimento di ogni democrazia?
L’intento provocatorio di quanto ora affermato è evidente, e non c’è qui bisogno di scomodare i classici della filosofia politica o i maestri contemporanei della scienza e sociologia politica, ma vorrei che la provocazione risultasse utile a pensare politicamente qualcosa di nuovo e fondante per fondamenta oramai ossidate, e dunque maleodoranti e pericolanti. Ma, forse, tutto è inutile nella cacofonia della Babele massmediatica nella quale quotidianamente girovaghiamo.
Sembra quasi di dover dar ragione al rivoluzionario Lenin, secondo cui il socialismo realizzato sarebbe consistito nel potere dei soviet più l’elettrificazione. Noi potremmo rimodulare nei seguenti termini: la politica democratica è l’assemblea di quartiere più il cablaggio. E la parafrasi non paia più scherzosa di quanto non sia invece seria, molto seria.
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