di Francesca Varasano
E’ difficile concepire l’indolenza d’un funzionario che rifiuti risposte a chi è divorato dai dubbi più grandi sulla sorte d’una persona cara, quasi fagocitata da un paese lontanissimo per geografia, lingua, cultura e sistema giuridico. Nell’eventualità d’un arresto in un paese straniero, il sostegno della rappresentanza del proprio paese è vitale per ottenere chiarezza e mantenere informata la famiglia, nonchè, in alcuni casi, per assicurare il rispetto dei diritti basilari sanciti dai trattati internazionali.
I cittadini italiani detenuti all’estero sono, al momento, circa 3000. “Le voci del silenzio” (Eclettica Edizioni), libro-inchiesta di recente uscita, scritto a quattro mani da Fabio Polese e Federico Cenci, raccoglie fra queste sei storie in qualche modo esemplari, attraverso la testimonianza dei reclusi o dei loro affetti.
Ad ottantacinque anni dall’esecuzione di Sacco e Vanzetti, alcuni casi di connazionali detenuti all’estero sono tristemente noti, altri incredibilmente poco conosciuti: Derek Rocco Barnabei è l’italo-americano, prima d’allora incensurato, accusato dell’omicidio della fidanzata e ucciso per iniezione letale nel settembre del 2000, lasciando inascoltati gli appelli in extremis del Parlamento Europeo e di Giovanni Paolo II. Sempre negli Stati Uniti, Carlo Parlanti ed Enrico Forti sono stati condannati, rispettivamente, per stupro ed omicidio in processi che appaiono costellati di prove incerte, vizi procedurali, pregiudizi e scarsissima copertura mediatica e diplomatica.
Quella di Mariano Pasqualin, italiano residente nella Repubblica Domenicana e qui arrestato per narcotraffico, è recente, crudele vicenda di cronaca: Pasqualin è morto in circostanze non chiare poco tempo dopo l’arresto. La notizia della morte, come quella dell’arresto, sono state fra le poche comunicazioni dell’Ambasciata d’Italia a Santo Domingo alla sorella in Italia. Nonostante le resistenze di quest’ultima, il corpo dell’uomo è stato cremato senza che fosse stato possibile un chiarimento sulla vicenda, un’autopsia imparziale, né la restituzione delle spoglie e degli effetti personali alla famiglia: le autorità dominicane hanno così deciso arbitrariamente, con il beneplacito della rappresentanza italiana.
Quando il decorso della legge culmina con la morte d’un uomo suscita inevitabilmente interrogativi atavici sulla legittimità della pena capitale, lo stato di diritto e l’essenza stessa della giustizia. Le vicende oggetto d’analisi nel libro di Polese e Cenci, però – e da questo paradigma, potenzialmente, quelle di altri italiani detenuti all’estero – sembrano anche inficiate in partenza dall’inerzia delle istituzioni, dalla pigrizia di funzionari in consolati che parrebbero poco avvezzi alle disposizioni del trattato di Vienna circa le relazioni e funzioni consolari, dall’involuzione dell’immagine del Bel Paese di cui si fanno ambasciatori i mafiosi dei Soprano e i rozzi protagonisti di Jersey Shore.
Chiunque abbia avuto necessità di rivolgersi alla burocrazia conosce la fumosità e l’inafferrabilità di tanti Akakij Akakievic di memoria gogoliana, e probabilmente ha avuto modo di stimarne quella collaudata strategia per cui chi ha poco da dire lo dice con molte parole, e nella forma più ermetica. Eppure verrebbe da pensare che la vita, la morte, la libertà e altri concetti importanti dell’esistenza umana meritino risposte chiare e certe.
Processi kafkiani, angoscianti e surreali sono un incubo che può prendere le forme d’una lingua poco o affatto conosciuta. Gli esiti sono incerti e, in molti casi, attutiti dal silenzio e dalla distanza del sistema diplomatico. I protagonisti de “Le voci del silenzio” chiedono invece, per loro e per altri, di non essere abbandonati dai media e dalle istituzioni. Chiedono di poter continuare a sentirsi italiani in terra straniera e di non essere dimenticati, di trovare un posto nella coscienza nazionale: una preghiera che la pietà umana impone di ascoltare.
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