di Davide Parascandolo
Sembra proprio il caso di poter dire, parafrasando una celebre frase de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che tutto debba cambiare affinché nulla cambi. Un adagio perfetto per descrivere l’assetto di potere scaturito in Egitto a seguito dell’approvazione della nuova Carta costituzionale. Il 14 e il 15 gennaio gli egiziani la hanno approvata con un vero e proprio plebiscito. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Commissione elettorale centrale ha ricevuto infatti il 98,1% dei consensi, con una partecipazione alle urne del 38,6%. La Costituzione precedente, di stampo islamista e approvata nel dicembre del 2012, di consensi ne aveva invece ottenuti il 64%, frutto di un’affluenza attestatasi allora al 33%. Ed è proprio il dato sull’affluenza l’elemento cardine su cui il nuovo uomo forte del Cairo, il generale Abdel Fatah al-Sisi, punta per potersi candidare alle elezioni presidenziali che si terranno presumibilmente entro i prossimi sei mesi.
Al-Sisi, a capo dello Stato Maggiore Interforze nonché ministro della Difesa, era stato nominato al vertice del Consiglio Supremo Militare dall’ex presidente Mohammed Morsi, destituito proprio dal potente generale il 3 luglio scorso, sotto le spinte sempre più ingestibili di un malcontento popolare esploso per l’incapacità del presidente islamista di far fronte alla drammatica crisi socio-economica in cui era precipitato e nella quale tuttora ristagna il Paese. Al suo posto i militari hanno nominato come presidente ad interim Adly Mansour, giudice della Corte Costituzionale, mentre sullo scranno di primo ministro è asceso Hazem al-Beblawi. Cerchiamo però di comprendere in maniera più dettagliata i punti chiave della nuova Costituzione, testo redatto da cinquanta costituzionalisti e formato da un corpus di 247 articoli.
Vi si sottolinea in primo luogo la natura civile del potere politico, con limitazioni nell’applicazione della legge islamica, un punto di rottura certamente evidente rispetto alla precedente Carta, pur rimanendo la Sharia inamovibile come presupposto essenziale della legge. Viene poi affermata la libertà di culto, essendo messi al bando tutti i partiti religiosi, tra cui Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani e al-Nour, il partito degli ultraconservatori salafiti. Proprio il 25 dicembre, peraltro, i Fratelli Musulmani sono stati dichiarati gruppo terroristico in seguito all’accusa di aver ordito un attentato al quartier generale della polizia di Mansoura, capitale del governatorato settentrionale di Daqahliyya, lungo il delta del Nilo (attentato poi rivendicato dal gruppo qaedista Ansar Beit al Maqdis, legato proprio alla Fratellanza). I poteri più ampi sono riservati ai militari, tra i quali spicca il diritto di nomina del ministro della Difesa per i prossimi due mandati presidenziali. Appare inoltre enormemente ampliata la giurisdizione stessa dei tribunali militari, sotto la cui scure potranno ricadere anche i civili. Il primo ministro sarà invece di nomina presidenziale, investitura alla quale dovrà seguire l’approvazione del Parlamento.
Nel campo dei diritti civili, per la prima volta è prevista la nascita di una commissione parlamentare contro le discriminazioni ed è sancita la garanzia di una sostanziale parità tra uomini e donne, prevedendo al contempo anche un’estensione delle tutele per i minori. È garantito chiaramente inoltre il divieto di tortura, unitamente al diritto all’integrità fisica. I punti di criticità tuttavia non mancano. Innanzitutto, poco chiare sono le modalità di accesso ai diritti essenziali, con il 30% della popolazione (circa 16 milioni di cittadini) che attualmente non può accedere all’istruzione. Ambiguo poi il rapporto con alcune minoranze religiose, quali la comunità baha’i, gli sciiti e la comunità musulmana ahmadiyya, essendo riconosciuti per via costituzionale solo i diritti di musulmani, cristiani ed ebrei. Destano infine preoccupazione lo smisurato potere affidato ai tribunali militari e i continui rimandi alla legge ordinaria per l’applicazione delle norme estensive di alcuni dei suddetti diritti, procedimento che pertanto potrebbe restringerli o addirittura negarli, come nel caso del diritto di sciopero o quello di manifestare pacificamente, palesemente ribaltati dalla recente e rigidissima legge sulle manifestazioni emanata il 24 novembre scorso.
La nuova Costituzione vede la luce a due anni esatti dall’inizio di quella rivoluzione che avrebbe dovuto portare una ventata di democrazia e di progresso in un Paese schiacciato da decenni di dittature militari e che si era sollevato al grido di “pane, libertà e giustizia sociale”. Era infatti il 25 gennaio 2011 quando l’ormai celebre Piazza Tharir divenne teatro e simbolo della protesta. Occorre tener presente come, sin dal 1952, l’Egitto sia stato guidato da un patto di ferro tra esercito e burocrazia, con il primo che da sempre si è assicurato il controllo del potere reale e dell’economia, garantendo a molti suoi esponenti la direzione di svariate aziende statali e delle strutture amministrative. Il momento cruciale che ha probabilmente significato il soffocamento delle speranze rivoluzionarie è stato proprio il passaggio di consegne del potere da Mubarak allo SCAF, il Consiglio Supremo delle Forze Armate, decisione che nel febbraio del 2011 ha esautorato quello che sarebbe dovuto essere il Consiglio presidenziale temporaneo formato dai rivoluzionari, il quale avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di organo di transizione. Ciò che ne è seguito è storia nota. L’esercito ha preso le parti della rivoluzione per poterne successivamente annullare gli effetti, scendendo a patti con i partiti islamisti, gli unici capaci di organizzarsi all’indomani della destituzione del vecchio rais, mentre i movimenti giovanili, la vera anima della rivoluzione, si frammentavano e si disperdevano senza riuscire a saldarsi in uno schieramento unitario. Si è arrivati così alle presidenziali del giugno del 2012 e alla vittoria di Morsi e dei Fratelli Musulmani. La rivoluzione laica era finita ancor prima di cominciare. Lo scorso giugno, ad un anno esatto dall’insediamento di Morsi, nuove imponenti manifestazioni di protesta hanno infine indotto l’esercito a riprendere il potere, chiudendo il cerchio.
In conclusione, la Carta appena votata non attua concretamente gli ideali rivoluzionari ma, al contrario, sembra rispondere esclusivamente ad un’esigenza di stabilizzazione del Paese che poco ha da spartire con i valori della rivoluzione. Pur essendo stati espunti i tratti più marcatamente islamisti ed essendo stati inseriti, almeno sulla carta, alcuni nuovi diritti, si tratta di una costituzione sostanzialmente conservatrice, il cui presupposto è la restaurazione di un ordine chiuso nel quale un potere incontrastato viene garantito ai militari, con il ritorno ad una forma di governo semi-autoritaria. L’Egitto è insorto due anni fa contro autoritarismo, corruzione e immobilismo socio-economico, auspicando l’edificazione di uno Stato democratico, laico e moderno. Poco o niente di tutto ciò sembra essere avvenuto e, dopo una breve parentesi di potere islamista, tutto sta tornando al punto di partenza, con il solo risultato di aver rimosso un generale e averlo sostituito con un altro. Insomma, molto rumore per nulla.
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