di Teresa Serra

Sistema elettorale e rappresentanza sono fondamentali nella vita democratica di un paese e allo stato attuale, senza scendere nella critica specifica all’attuale sistema elettorale, che definire porcellum è già un complimento, questa ibridazione tra voto e nomina ha mandato definitivamente in crisi il sistema rappresentativo facendo del rappresentante un dipendente che non è in grado, né del resto si pone il problema, di rappresentarsi le esigenze del paese, se vogliamo dare alla rappresentanza anche il significato più ampio di rappresentazione. Che non entra in parlamento perché ha un legame con il territorio, perché ha una competenza, perché si confronta con un elettorato e presenta le proprie opinioni e i propri punti di vista, pur all’interno di una compagine elettorale, perché ha capacità e volontà di comprendere i problemi concreti, perché intende onorare la funzione per la quale è stato chiamato, ma perché gode della fiducia del leader con il quale ha determinati legami. E al quale risponderà per il suo comportamento in un parlamento nel quale ogni discussione diventa addirittura dannosa, perché il parlamentare decide col suo voto su problemi che non conosce – e di cui nella maggior parte dei casi poco gli interessa -, avallando solo le scelte di chi lo ha fatto eleggere. Ma un Parlamento composto di politici che abbiano sufficiente indipendenza per adempiere al loro mandato con autonomia di giudizio, che abbiano un effettivo e continuo rapporto con gli elettori e ne rappresentino le esigenze, che nel parlamento e all’interno dei partiti possano esprimersi liberamente e democraticamente, e, aggiungo, che conoscano i problemi che affrontano, è fondamentale per la vita di un paese e per le istituzioni democratiche.

Strutture e funzioni si materializzano attraverso i soggetti e questi devono non solo avere la capacità di comprendere i problemi concreti, non solo disporre degli strumenti per affrontarli, ma devono anche avvertire il senso del ruolo e della funzione. Mancanza di competenza e mancanza di legami con i problemi, ma anche, e soprattutto, mancanza di volontà politica, mancanza di onestà politica, semplicemente modo riduttivo di intendere la politica, mancanza di cultura giuridico-politica. Ne consegue anche la perdita della comprensione delle ragioni d’essere delle leggi. Cioè perché si fa una legge? Perché si devono risolvere certi problemi? Perché si deve rispondere a determinate aspettative di carattere generale? Mai più. Forse per una ragione di produttività ed efficienza, o, peggio, come si può rilevare dallo stesso linguaggio politico, per far vedere che si fa qualcosa per risolvere il problema che in realtà non si vuole risolvere. Per acquistare credibilità… Come se la credibilità potesse acquistarsi attraverso le parole – una legge purché sia, che troppo spesso difende interessi specifici- e non nei fatti – una legge che tende a risolvere i problemi. Per affrontare l’emergenza? E nell’interesse di chi? Se il principio che fa muovere è semplicemente quello dell’interesse immediato del rappresentante, che risponde a colui che l’ha fatto eleggere, che ha, a sua volta, i suoi interessi specifici, la situazione diventa, nel medio e lungo termine, insostenibile. Si può dire che la politica ha sempre difeso e difenderà sempre degli interessi, ma occorre anche che vi sia una proporzionalità nella difesa degli interessi, che non siano interessi esclusivamente di parte e in questa prospettiva la trasparenza forse è fondamentale. Tornando alla legge elettorale l’anomalia credo che nasca dal fatto che, in qualche modo, sulla motivazione della necessità di una continuità governativa, si sono realizzate modifiche assolutamente in contrasto con la realtà politico-sociale e certamente non sotto il velo d’ignoranza di rawlsiana memoria, ma solo nella speranza di poter prefigurare posizioni successive. Ma se si privilegia la continuità dell’esercizio della funzione esecutiva, non si viene in qualche misura a perdere il livello della rappresentatività dei parlamentari o il livello dei valori comuni?

Quando si fanno delle forzature, quando si creano delle leggi – sia la legge elettorale, sia altre leggi che vediamo continuamente varate e molto spesso modificate prima ancora di entrare a regime – seguendo principi che non rispondono alle effettive esigenze di carattere generale, e che non sono collegate nemmeno con quella caratteristica della legge che risiede nella durata, poi il diritto si vendica. Nel caso specifico la capacità di realizzare continuità non c’è stata, e la situazione attuale, anche per gli stessi partiti, non è certamente positiva, anche se utile nell’immediato. Purtroppo la vendetta del diritto non tocca solo chi ne ha stravolto l’uso, sulla base di un interesse particolare, ma tocca la società tutta che deve vivere in perenne crisi. Tocca soprattutto la parte sana della società, quella massa silenziosa e laboriosa, che, di fronte all’insostenibilità della situazione, non solo si allontana dalla politica ma si assottiglia sempre di più, adagiandosi in una situazione acritica che alimenta l’astensionismo o un voto per abitudine. Sulla gravità di questo assottigliamento forse occorre riflettere. Ricorda Danilo Breschi che, se è vera la teoria di Constant, l’Italia non è matura per alcuna rivoluzione. Purtroppo la volontà di autoconservazione che pervade l’attuale classe politica ma anche le classi dirigenti italiane, autoreferenziali e clientelari, trova sostegno nella incapacità della società di impegnarsi nella vita politica anche con azioni forti, collegate a idee forti, di passare dal rifiuto della politica e dall’astensionismo ad un presenza critica e attiva, di collegare le varie forme associative e i vari movimenti per la realizzazione degli obiettivi comuni. Se il problema è capire su che cosa si concorda e quali siano le idee che la società esprime e le istituzioni incarnano e solidificano, rendendole pratica quotidiana lecita e legittimante, di fronte alla massa silenziosa che si frantuma anche nel particolarismo dei gruppi, questa politica diventa specchio di una società nella quale la parte sana e laboriosa, che regge economia e società, viene relegata, ma perché essa stessa si relega, in un angolo sempre più ristretto. E la politica, che ne sfrutta la sua incapacità di diventare soggetto, pone in essere un nuovo criterio di integrazione del consenso che si cerca nell’emergenza e nella crisi. Dalla crisi come momento di transizione verso nuove forme di equilibrio, alla crisi come principio di legittimazione il passo è stato breve. Quindi occorre alimentare e non risolvere la crisi? Approfondire e non superare l’emergenza? Possiamo solo sperare che in questa occasione elettorale il diritto si vendichi ma può farlo solo se gli italiani riscoprono “quella passione che ha animato in passato tante battaglie, numerose scoperte, altrettante invenzioni”, come ha scritto Angelica Stramazzi, ovvero scoprano la necessità di esprimersi criticamente, non si facciano drogare dalle parole ma riflettano sulle situazioni.