di Antonio Campati*
Dopo quasi tre mesi dal giuramento del Governo presieduto da Mario Monti, le analisi sul rapporto Parlamento-cittadini, partiti-elettori, classe politica-opinione pubblica delineano i contorni di un nuovo (e, in parte, inedito) capitolo sulle più recenti trasformazioni del regime rappresentativo. Seppur con sfumature differenti, le diverse letture dello status quo convergono nell’individuare una «debolezza» congenita nei partiti politici e una «crisi» permanente del Parlamento. Infatti, per Ernesto Galli della Loggia, viviamo immersi da anni in un «vuoto gigantesco», con un Parlamento espropriato, con partiti ridotti allo «stato evanescente» e con un presidente del Consiglio e un governo tradizionalmente privi di poteri propri significativi. E, con ciò, rileviamo un’azione sempre più incisiva del Presidente della Repubblica nella conduzione delle vicende politiche come dimostra proprio la genesi del Governo in carica.
Specifica, inoltre, Galli della Loggia che la «gravissima» crisi della democrazia parlamentare è la crisi di quella «specifica forma di democrazia adottata sessanta anni fa dalla nostra Costituzione (…) e che si sostanzia per l’appunto nell’assoluta centralità del Parlamento» (Corriere della Sera, 28 dicembre 2011).
Senza dubbio, le osservazioni riportate riproducono un quadro in larga parte veritiero, ma per rintracciare ulteriori indizi legati ai problemi odierni e cercare di comprenderne meglio le dinamiche anche in prospettiva comparata, si può fare un passo ancora più indietro nel tempo rispetto alla stagione costituente e soffermarsi su uno studio che risente degli anni trascorsi, ma conserva non pochi elementi per riflettere sull’attualità.
Nel 1924, durante la XXII Conferenza dell’Union Interparlementaire, il consigliere nazionale svizzero Horace Micheli chiede ufficialmente all’organizzazione internazionale di impegnarsi a sostenere una ricerca sull’evoluzione del regime rappresentativo. Così, nella riunione convocata per l’anno successivo, viene adottata all’unanimità una risoluzione che incarica la Commissione interparlamentare per lo studio delle questioni politiche di fornire una puntuale analisi sul regime parlamentare nei diversi Stati. La decisione viene presa considerando prioritaria, fra le altre cose, «la crisi che il parlamentarismo attraversa attualmente in quasi tutti gli Stati, le critiche e anche gli attacchi di cui è oggetto da parte degli ambienti più diversi».
Quindi, la Commissione chiede a cinque illustri professori di diritto pubblico e costituzionale – Harold J. Laski, Charles Borgeaud, Ferdinand Larnaude, Gaetano Mosca, Moritz Julius Bonn – di fornire il loro contributo in qualità di esperti. Le relazioni vengono pubblicate prima su diversi numeri (ma tutti relativi alla stessa annata, il 1927) del Bullettin Interparlementaire, organo ufficiale dell’Union e poi raccolti l’anno successivo in una brochure diffusa in inglese, francese e tedesco.
Fino ad oggi, il pubblico italiano non ha potuto apprezzare il lavoro di ricerca stampato nel 1928 (ad eccezione delle riflessioni scritte da Mosca pubblicate nel 1949); fortunatamente, la raccolta dei saggi tradotti in italiano è ora presente ne L’evoluzione attuale del regime rappresentativo. Cinque risposte a un’inchiesta dell’Union Interparlementaire (edizione a cura di Cristina Cassina, il Mulino, Bologna, 2011), accompagnata da una puntuale introduzione firmata dalla curatrice. E proprio dalle prime parole di quest’ultima emergono le differenze con la situazione attuale: si legge, infatti, che è pesante l’aria che si respira nel testo del 1928, anno che segna un «punto di non ritorno per la storia della vecchia Europa» minacciata dal consolidamento dei regimi bolscevico e fascista e da una incombente crisi economica (p. 7).
Tuttavia, la raccolta, sottolinea ancora Cassina, «oscilla tra bilanci pessimisti, ma mai fallimentari, e un’ampia gamma di tecnismi migliorativi». E sia tra i primi che tra i secondi si possono scovare spunti interessanti, non tanto per testimoniare profetiche intuizioni, ma per evidenziare degli snodi che con regolarità riaffiorano nelle analisi e nel dibattito pubblico. Non è certo questa la sede per una rassegna completa, ma si procederà solo con qualche suggestione.
Harold J. Laski, per esempio, pone l’accento su una conseguenza dell’«ampio sviluppo della vita moderna», ossia la tendenza a «separare l’elettore, in modo assai più netto di un tempo, dal singolo membro del Parlamento» dando cosí l’impressione della «mancanza di qualunque relazione tra lui e le istituzioni politiche»; specialmente nel caso del Parlamento, posto sotto la lente d’ingrandimento solo quando una determinata urgenza ne ha «drammatizzato il ruolo agli occhi dell’elettore» (p. 41).
Ma dei cambiamenti ineludibili cui è sottoposto il sistema rappresentativo è ben consapevole anche Charles Borgeaud quando, all’interno di un’ampia ricostruzione del suo sviluppo, lo percepisce talmente modificato da descriverlo come estraneo alla «concezione di coloro che lo introdussero nelle nostre costituzioni scritte» (p. 57).
Diverse pagine del saggio di Ferdinand Larnaude sono dedicate a specificare con chiarezza le categorie tipiche della rappresentanza nel regime rappresentativo e a smascherare «un equivoco (…) durato anche troppo»: la confusione fra «regime rappresentativo» e «rappresentanza dello Stato» («I sedicenti rappresentanti rappresentano forse i loro elettori e, anche, se si vuole, la popolazione per intero. Non rappresentano lo Stato», p. 82).
A simili spunti – è bene ribadirlo – incompleti perché estrapolati da schemi teorici ben consolidati, possiamo aggiungere alcuni passaggi presenti nelle ultime due relazioni, quelle di Gaetano Mosca e di Moritz Julius Bonn. Il senatore italiano, nel sottolineare come anche nei regimi parlamentari si formino delle oligarchie «quasi stabili» che «monopolizzano la supremazia politica», coglie la «vera superiorità» che i regimi rappresentativi hanno su quelli assoluti: la possibilità della pubblica discussione degli atti dei governanti, la facilità con cui il malcontento dei governati può manifestarsi in modo legale, ossia «nei paesi dove la sincerità del voto non è troppo falsata» (p. 116). Tuttavia, l’Autore degli Elementi di Scienza Politica addita al suffragio universale un «abbassamento del livello morale e intellettuale» dei membri delle assemblee elettive (p. 117), ma si dice consapevole della quasi totale impossibilità di correggere un «errore» del genere (p. 128).
Già pochi passaggi raccolti alla rinfusa dalle diverse relazioni potrebbero essere oggetto di dibattiti ampi e diversamente articolati. Infatti, è proprio la varietà delle interpretazioni (e di talune ricostruzioni del concetto di rappresentanza) il tratto precipuo dell’opera.
Per concludere, nell’ultimo saggio Bonn scrive: «il regime parlamentare, innanzitutto, è un metodo di selezione perché deve far emergere alcune personalità, dei capi. Per questa qualità esso costituisce un sistema di elezione indiretta» che «è certamente imperfetto, come d’altronde lo è ogni modo di selezione» (p. 136). E pone una domanda: «è lecito affermare che il sistema mette nei posti importanti capi incapaci e impedisce a personalità competenti l’accesso al potere?» (p. 136).
La domanda è chiaramente insidiosa. Il giurista tedesco offre una risposta articolata che si basa sulla diversità degli scenari presenti da un paese all’altro, in larga parte determinati dal «sistema di rappresentanza» a cui fanno ricorso. A ben vedere, un altro argomento che conserva la sua attualità…
*Centro Studi Tocqueville-Acton
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