di Damiano Palano

tempo guadagnatoLa storia della Scuola di Francoforte si concluse per molti versi nel 1968. Dinanzi alla contestazione studentesca i membri principali della Scuola assunsero infatti posizioni molto diverse. Se Marcuse divenne il riferimento principale degli studenti antiautoritari, Adorno non lesinò le critiche al metodo e alle stesse tesi dei contestatori. Ma soprattutto iniziò a venire meno la coerenza della prospettiva che, fin dalle origini, aveva contrassegnato la riflessione dei membri raccoltisi negli anni Venti attorno all’Istituto per la Ricerca Sociale (una coerenza che non era stata intaccata neppure dalle vicissitudini del lungo esilio). E fu proprio l’esponente principale della ‘seconda generazione’ della Scuola, Jürgen Habermas, a procedere più energicamente in questa direzione. Nella fase acuta della contestazione, il filosofo accusò infatti il movimento studentesco di adottare strumenti di azione politica che lo facevano assomigliare sempre di più a una sorta di «fascismo rosso». E anche per questo, se Marcuse e lo stesso Adorno rimasero un costante riferimento per i teorici anti-autoritari, Habermas divenne invece il bersaglio privilegiato di un consistente fuoco di critiche, tra cui spiccavano per molti versi quelle di Oskar Negt e di Hans-Jürgen Krahl.

Alla base di quella divaricazione non stavano però soltanto motivazioni congiunturali o i giudizi sulle prospettive del movimento studentesco. La lacerazione – che di fatto era destinata a sancire la fine della Scuola – aveva un’origine più profonda. Polemizzando proprio contro il movimento studentesco, e contro i più giovani epigoni della ‘teoria critica’, Habermas prese infatti a sottolineare l’autonomia della dimensione comunicativa dalle forze produttive, e proprio percorrendo questo binario sarebbe arrivato a elaborare, negli anni Ottanta e Novanta, una teoria della democrazia deliberativa che nella discussione pubblica avrebbe trovato l’elemento qualificante. Naturalmente la rottura non stava tanto nell’enfasi assegnata alla dimensione culturale e comunicativa, perché tutti i teorici francofortesi avevano fin dal principio rivolto lo sguardo verso le dinamiche dell’«industria culturale». Il punto era però che tutti i grandi esponenti della scuola intesero l’«industria culturale» come un insieme di apparati la cui logica si trovava ad operare nel perimetro dell’assai ridotta autonomia consentita dal capitalismo. In altre parole, quell’autonomia di cui la cultura aveva goduto in passato era destinata a ridursi, schiacciata dalla logica della società del capitalismo di consumo, una società nella quale il soggetto non poteva che tramutarsi in un «uomo a una dimensione». Quando il movimento studentesco tedesco dunque si scagliava contro le istituzioni autoritarie e contro l’industria editoriale di Axel Springer, senza dubbio tendeva a imboccare un sentiero insidioso e politicamente infruttuoso, ma non faceva che sviluppare sul piano dell’azione concreta quei presupposti teorici che la Scuola aveva delineato. E, per molti versi, era piuttosto prevedibile che un pessimismo teorico così radicale dovesse politicamente indirizzare verso il vicolo cieco di una contrapposizione frontale con lo Stato.

Al contrario, Habermas – che pure aveva contribuito alla costruzione di questo quadro pessimista con Storia e critica dell’opinione pubblica, al principio degli anni Sessanta – doveva col tempo riconoscere un’autonomia crescente alla dimensione comunicativa, nella quale la discussione pubblica poteva effettivamente mostrare notevoli potenzialità nella società del capitalismo maturo. Proprio a seguito della ‘svolta linguistica’ compiuta da Habermas, l’ordito della ‘teoria critica’ della società, capace di tenere insieme marxismo e psicanalisi, non poteva però non sfilacciarsi. E così, persino per quegli studiosi che ancora oggi continuano a richiamarsi alla Scuola di Francoforte, la formula è diventata solo un riferimento generico a posizioni in realtà fra loro molto eterogenee, in cui l’eredità hegelo-marxista si trova affiancata a versioni più o meno radicali di post-modernismo filosofico.

Nell’ultimo anno, la lontana divaricazione che sul finire degli anni Sessanta oppose Habermas ai giovani esponenti del movimento antiautoritario è però sorprendentemente riemersa. Nel dibattito sul futuro dell’Europa che in Germania ha opposto Habermas a sociologi come Claus Offe e, soprattutto, come Wolfang Streeck, non è infatti difficile riconoscere proprio le tracce di quella vecchia contrapposizione. La nuova querelle, innescata dalle Lezioni Adorno tenute da Streeck nel 2012 proprio presso il celebre istituto francofortese (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013) coinvolge innanzitutto l’interpretazione dei problemi dell’Ue e le strategie possibili di soluzione. Auspicando una «Bretton Woods europea», Streeck sostiene infatti la necessità di tornare alle monete nazionali. Più in generale, alla base della contrapposizione sta però anche un diverso modo di guardare alla società e alle sue trasformazioni. Perché Streeck, rifacendosi all’eredità della Scuola e alla riflessione di Adorno, si concentra sulle tendenze ‘strutturali’ del capitalismo contemporaneo. E in questo senso si contrappone fatalmente alla prospettiva di Habermas, focalizzata invece da sempre sulla costruzione ‘deliberativa’ di una democrazia ‘postnazionale’. Non possono così passare inosservate le formule con cui Streeck – che si laureò a Francoforte nel 1972, e che ebbe modo di frequentare le lezioni sia di Adorno sia dell’allora giovane Habermas – si richiama ai fondamenti della Scuola e al suo radicale pessimismo. «I problemi possono presentare caratteristiche tali per cui non ci sono soluzioni, o comunque non attuabili qui e ora», scrive per esempio al principio di Tempo guadagnato. E non manca di osservare: «Se mi venisse chiesto, dove stia allora il mio contributo ‘positivo’, alla fine avrei ancora l’occasione di richiamarmi ad Adorno, la cui risposta – naturalmente espressa in termini più brillanti – sarebbe senza dubbio: e se di positivo non ci fosse nulla?» (p. 10). Ma, soprattutto, non può passare inosservato il fatto che Streeck – in neppure troppo implicita polemica con la ‘svolta linguistica’ compiuta da Habermas – torni a ribadire la centralità della dimensione ‘materiale’, delle tendenze ‘strutturali’ del capitalismo maturo che le ricerche francofortesi degli anni Sessanta e Settanta avevano tentato di ricostruire: «Anche nella ricerca teorica degli anni di Francoforte», scrive infatti Streeck, emerge con chiarezza quanto le conoscenze delle scienze sociali siano inevitabilmente legate al loro tempo. Nonostante ciò, o addirittura per questo, nell’occuparci degli avvenimenti contemporanei abbiamo la possibilità di ricorrere alle teorie della crisi del ‘tardo capitalismo’ degli anni settanta, e non solo perché oggi si riscopre e si rafferma ciò che per decenni è stato dimenticato e si è considerato come irrilevante: ossia che l’ordine economico e sociale delle democrazie ricche è ancora di tipo capitalistico, e perciò siamo in grado di comprenderlo, se mai questo è possibile, solo con l’aiuto della teoria del capitalismo. A posteriori, si riesce a capire ciò che allora non si poteva comprendere perché sembrava andare da sé, oppure perché non si voleva capire in quanto intralciava progetti di carattere politico. Il fatto che, nonostante tutti gli sforzi teorici, non si sia visto ciò che era più importante e non ci si sia accorti di ciò che si annunciava all’orizzonte serve tra l’altro a ricordare che la società ha davanti a sé un futuro aperto e che la storia è imprevedibile – una condizione di cui i sociologi moderni non hanno ancora piena consapevolezza» (pp. 10-11).

Nel corso dell’ultimo anno Habermas ha avuto modo di considerare in più occasioni la proposta di Streeck, e alcuni di questi interventi sono ora raccolti nel volumetto Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea (Laterza, pp. 112, euro 15.00). Il filosofo, che il 18 giugno 2014 compie ottantacinque anni, non risparmia certo le critiche al vecchio allievo. Per quanto condivida la diagnosi pessimista di Streeck sullo stato di salute del capitalismo democratico, respinge invece l’ipotesi di un ritorno agli Stati e alle monete nazionali come «un’opzione di nostalgica chiusura a riccio», perché la sovranità degli Stati nazionali è secondo Habermas poco più che un involucro vuoto: «Gli Stati nazionali custodiscono una sovranità da tempo svuotata. Evidentemente la loro capacità d’intervento politico non è più in grado di sottrarsi agli imperativi di un settore bancario ipertrofico e disfunzionale. Gli Stati che non si associano in organismi soprannazionali, e dispongono solo dello strumento dei trattati internazionali, falliscono miseramente di fronte alla sfida di rimettere questo settore in sintonia con i bisogni dell’economia reale e di ricondurlo a dimensioni funzionalmente adeguate» (p. 56). Ma Habermas – toccando davvero un nervo scoperto – mette in dubbio la credibilità della proposta di Streeck anche da un altro punto di vista: «alla fine del libro» – scrive infatti – «egli mostra simpatia per l’aggressività cieca di una resistenza autodistruttiva che ha rinunciato a sperare in una soluzione costruttiva. Ciò tradisce un certo scetticismo nei confronti del suo stesso appello a rafforzare quanto ancora resta delle prerogative nazionali. Alla luce di questa rassegnazione la proposta di una ‘Bretton Woods europea’ appare solo di facciata» (pp. 57-58).

La soluzione, per Habermas, consiste piuttosto nel rafforzamento del processo di integrazione politica, e in particolare nell’irrobustimento dei meccanismi di legittimazione democratica dell’Ue. Più specificamente, Habermas indica la strada che potrebbe consentire di superare lo stallo in cui si trova oggi nella solidarietà civica: una solidarietà che richiederebbe alla Germania di farsi carico, nel breve e nel medio periodo, di una parte dei debiti dei Paesi del Sud. Una condizione indispensabile, per raggiungere questo obiettivo, sarebbe però relativa al modo con cui vengono prese le decisioni, e consisterebbe cioè in un rafforzamento del peso del Parlamento, rispetto a Consiglio e Commissione: «Così la formazione della volontà politica non dipenderebbe più soltanto dagli estenuanti compromessi tra rappresentanti di interessi che si bloccano a vicenda, ma anche, in pari misura, dalle decisioni a maggioranza di parlamentari eletti secondo preferenze di partito. Solo in un Parlamento europeo composto con partiti europei potrebbe prodursi una generalizzazione degli interessi che è trasversale [durchkreuzend] rispetto ai confini nazionali. Solo passando attraverso procedure parlamentari, una prospettiva europea generalizzata – il ‘noi’ dei cittadini della Ue – potrebbe rafforzarsi fino a diventare potere istituzionalizzato» (p. 61). Naturalmente Habermas non si nasconde gli ostacoli che si incontrano su questa strada. Ma, nonostante non sia incline al pessimismo radicale dei vecchi maestri francofortesi, ritiene che – se il Vecchio continente non proseguirà sul terreno di un’ulteriore integrazione politica – si condannerà all’irrilevanza nello scenario globale e a soffocare dentro la «spirale tecnocratica».

È per molti versi scontato che il dibattito tra Habermas e Streeck non sia destinato a rimanere confinato solo al terreno accademico. D’altronde, in ciascuna delle due prospettive le implicazioni politiche – e le stesse prese di posizione pro o contro l’Ue – occupano uno spazio probabilmente molto più significativo di quello riservato alle analisi puramente ‘teoriche’ (se poi è davvero legittimo operare una simile distinzione). Un simile dibattito traduce però in termini di riflessione politica una lacerazione che ha già preso forma negli ultimi anni e che probabilmente è destinata a diventare sempre più profonda nel prossimo futuro. Attorno al ruolo dell’Ue – e a ciò che può essere definito come il processo di costruzione dello Stato ‘post-nazionale’ europeo – la classica dicotomia di ‘destra’ e ‘sinistra’ ha iniziato infatti, più che a dissolversi, a ridefinirsi, perché la nascente frattura è destinata a dividere gli schieramenti esistenti tra ‘europeisti’ e ‘sovranisti’. Gli sviluppi futuri rimangono del tutto aperti, ed è solo una forma di pigrizia intellettuale quella che induce a rappresentare la vittoria del fronte ‘europeista’ come inevitabile, perché – come sempre – nello spazio del ‘possibile’ si trovano molte più varianti di quante gli alfieri del «non c’è alternativa» possano immaginare. Ma, al di là degli sviluppi di una simile contrapposizione, è difficile non ravvisare nelle due posizioni di Habermas e Streeck proprio alcuni dei tratti – o forse dei limiti – che da sempre hanno contrassegnato la riflessione della Scuola.

La proposta di Habermas appare infatti sempre più simile a una fuga nell’utopia, dal momento che la prospettiva di una democrazia europea viene avanzata nella piena consapevolezza del fatto che oggi sulla scena europea non esiste alcuna forza politica disposta a sostenere gli sforzi che il filosofo indica come indispensabili per superare lo stallo, e al tempo stesso per evitare di rimanere stritolati nella «spirale tecnocratica». E, d’altronde, di quei partiti europei in grado di conquistare un reale potere decisionale, cui Habermas affida la missione di costruire un’Unione effettivamente dotata di legittimazione democratica, nel Parlamento di Strasburgo non sembra esistere neppure l’ombra più sbiadita. Ma, se la prospettiva di Habermas sembra scegliere l’opzione dello slancio utopico dinanzi a uno scenario in cui sembrano mancare segnali che autorizzino all’ottimismo, l’esito cui giunge Streeck non è dal punto di vista teorico in fondo molto diverso, benché opposto in termini politici. A ben vedere, infatti, la diagnosi che Streeck formula sulla crisi contemporanea ricalca davvero l’impronta originaria delle indagini francofortesi e, in special modo, di quella riflessione sulle contraddizioni strutturali del capitalismo maturo condotto tra gli anni Sessanta e Settanta da quei giovani studiosi che si richiamavano – più o meno esplicitamente – all’eredità dell’Istituto per la Ricerca Sociale. Quelle indagini – cui diedero contributi notevoli, oltre ad Habermas, ricercatori come Elmar Altvater, Joachim Hirsch e Claus Offe (per citare solo i più noti) – rifiutavano il ‘crollismo’ che aveva nutrito molte teorie della crisi negli Venti e Trenta, e inoltre riconoscevano un ruolo tutt’altro che residuale allo Stato, alle sue funzioni e alla sua autonomia (ovviamente sempre intesa in termini ‘relativi’, in quanto condizionata dalle basi strutturali del capitalismo postbellico). Ma nel quadro che delineavano quegli autori ciò che sembrava sempre mancare era la politica, intesa come l’insieme dei conflitti e dei soggetti che di volta in volta li attivavano. In altre parole, lo schema interpretativo costruito dal dibattito tedesco di quegli anni tendeva a restituire – quasi senza eccezioni – la rigidità degli schemi funzionalisti. E, così, seppure in forma certo assai più problematica, tendeva a riprodurre un’analisi inevitabilmente determinista, incapace di cogliere come l’insieme dei conflitti potesse incidere – oltre che sull’intensità delle domande –sulla stessa configurazione delle relazioni sociali e dei rapporti politici. Riprendendo quelle analisi oggi, a quattro decenni di distanza, Streeck ha ovviamente buon gioco nel portarne alla luce i vizi e nel segnalare come ciò che allora veniva reputato come un limite ‘invalicabile’ sia stato nel frattempo ampiamente superato. Ma la sua ricostruzione del passaggio dallo Stato fiscale, allo Stato debitore, allo Stato in via di consolidamento, mostra il proprio limite principale nell’assenza di un riferimento alla politica, ossia a quelle dimensioni politiche che vanno – o possono andare – a influire sulle ‘tendenze strutturali’. E proprio per questo l’immagine evocativa di una «Bretton Woods europea» rischia di apparire tanto poco realistica quanto la prospettiva di un’Europa democratica e post-nazionale difesa da Habermas. In effetti, non solo non è affatto chiaro quali siano i soggetti politici capaci di riorientare l’Ue verso un simile percorso. Ma, soprattutto, Streeck – nel momento in cui evoca la «Bretton Woods europea» – sembra per molti versi ritenere che una simile formula sia in grado di richiamare in vita quella autonomia (più o meno relativa) dello Stato di cui tutta la sua indagine sulla crisi quarantennale del capitalismo occidentale tende invece a certificare la morte. E proprio per questo è allora molto difficile sottrarsi alla sensazione che si tratti solo di uno stratagemma con cui mitigare il classico pessimismo francofortese. Perché, a ben vedere, lo slogan che chiama in causa una «Bretton Woods europea», sospeso nel vuoto di determinazione politica che percorre tutta l’indagine di Streeck, rischia davvero di risultare non troppo diversa da una paglietta sbarazzina poggiata da una mano irriverente sul testa di un cadavere.

 

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