di Luigi Cimmino

In un recente articolo su Repubblica, che ha poi dato luogo ad una intera serie di interventi sul “montismo”, Ilvo Diamanti ha ben riassunto di quest’ultimo le davvero stupefacenti caratteristiche (le puntate successive, infarcite di politichese, sembrava volessero introdurre il termine nel dizionario). Ridotta all’osso l’espressione palesemente fuorviante “governo tecnico” nasconde la consegna del potere ad una guida ideologicamente indistinta per occultare quello che i presunti “distinti” orientamenti politici di ciascun partito non si sarebbero potuti permettere di fare. Come dire: i regolarmente eletti sostengono un governo che possono in parte criticare poiché non fa quello, dicono, che avrebbero fatto loro – ma non avrebbero mai potuto fare – se avessero “direttamente” governato. Mi scuso della mitragliata di congiuntivi, ma solo con questi si abbandona il saldo suolo della realtà per viaggiare nei mondi possibili. Sembra di sentirli: «Non ci sono alternative! Grandi coalizioni, accordi a termine in un momento di difficilissima congiuntura, sono impraticabili da noi senza o buttare alle ortiche l’aurea dell’ideale – di “destra”, di “sinistra”, di “centro” ecc. – di cui siamo gli alfieri, o accompagnare l’Italia alla bancarotta».

Come è possibile che ciò accada? Perché da noi ideali flebili, mai precisati e sempre descritti da periodi ipotetici dell’irrealtà hanno affascinato, affascinano e affascineranno il popolo degli elettori, i presunti signori, in democrazia, della cosa pubblica? Un alieno che scendesse sulla terra – ma forse basterebbe un inglese o uno spagnolo – come spiegherebbe, per puro piacere intellettuale, il busillis? Tanto per cominciare occorre escludere, ne sono convinto, che quello degli italiani sia semplicemente un popolo di gonzi. L’ottusità non spiega e chiude troppo presto il discorso. Un primo elemento su cui riflettere, foriero di suggerimenti, è quello della costituzione interna delle nostre aree politiche. Fermiamoci per ora alla destra, anche dall’altra parte di stridori ce ne sono in quantità ma, occorre riconoscere, meno eclatanti. Questa ha governato negli ultimi venti anni l’Italia albergando al suo interno le seguenti componenti; a) un partito di derivazione fascista (ex Alleanza Nazionale), del tutto democraticizzato, che a lume di naso dovrebbe farsi portatore di ideali comunitaristi: potenza unificante della nazione, importanza della tradizione, solidarietà interna al popolo ecc. b) un partito dichiaratamente liberale e libertario (ex Forza Italia) che dovrebbe fare dello “stato minimo”, del “merito individuale”, dell’idea per cui “la libertà di ciascuno finisce dove inizia quella dell’altro” il nocciolo del proprio messaggio; c) un partito localista (la Lega), anti-nazionale a anti-individualista, che esaspera a livello regionale (nel paese dei mille campanili!?) alcune caratteristiche comunitarie: coazione a ripetere della presunta storia comune, accompagnata da rituali pagani che rafforzano l’appartenenza ad una sola terra, l’adorazione di un suolo comune ecc. Quale dei tre, se non ci fosse sincera adesione alla convivenza pacifica – per carità! – dovrebbe essere più politicamente nauseato dalle idee degli altri? Eppure le parti hanno formato una solida coalizione, tanti elettori li hanno votati e, ci si può giurare, li voteranno assieme – ho parlato di destra ma il medesimo vale a sinistra, o al centro, cambiando potpourrì.

Non potrebbe essere – si può sospettare – che dietro all’accettazione dell’indigeribile mistura si nascondano strategie machiavelliche? Che Rizziero (l’elettore) accetti che Tizio stringa patti con gli (a suo avviso) insostenibili Caio e Sempronio per ottenere il massimo consentito? Beh, questa è “psicologia popolare”, non scientifica, mera superficie. Molti di noi le ragioni strategiche se le dicono e le dicono agli altri per nascondere la vera ragione celata nel profondo del loro inconscio politico: quello che appare alla luce del sole è l’effetto di un “rimosso”. Un po’ come avviene, secondo alcuni evoluzionisti, quando si tenta di giustificare vanamente atti violenti che dipenderebbero solo da ciò che è rimasto del nostro cervello atavico di serpente.

Il fatto è che, per lo più, gli italiani non votano dando un mandato che tuteli i loro interessi (come sempre in democrazia differenti e da conciliare), controllando il rispetto del mandato ed eventualmente revocandolo. Gli italiani, sempre per lo più, proiettano nel partito di appartenenza o in un suo leader un desiderio profondo di riconoscimento e identità del tutto indeterminato, vogliono semplicemente che sia, non che immancabilmente deluda facendo qualcosa di concreto e sporcandosi con i fatti. Il loro voto è come l’atto di adesione ad un mito fondativo, e i miti si adattano volta a volta a tutte le circostanze. L’adesione politica (o all’antipolitica) è accompagnata in Italia più che in altri paesi occidentali da una fame di sostanza, non di amministrazione, e questa fame è placata da ideali senza luogo, non dalla gestione sempre carente dei problemi materiali. Un mio caro amico, più lucido e realista di me, me lo ha confessato: l’ebbrezza è data dall’avere un nemico (qui Carl Schmitt funziona molto meglio); cambiare parte, cambiare idea, proprio perché così elastica e indefinita, è come cancellare la propria biografia, sempre riscritta con il senno di poi.

Da dove una situazione del genere? Complesso, difficile a dirsi. Certamente dipende da ragioni storiche e sociali; qualcosa avrà anche contato il fatto che per anni, dal dopoguerra in poi, si sia votato, da entrambi i versi dello spazio, contro qualcuno e non per qualcuno (il ben noto “fattore K”). Ma son convinto che uno storico sensibile all’inconscio politico italiano mi farebbe capire come la situazione si vada formando a partire dalla “civiltà comunale”.

Sembra più che razionale coltivare la speranza che la situazione cambi, o almeno migliori, che all’inconscio, probabilmente fra decenni, agli occhi dei nostri nipoti, si sostituisca la coscienza dei propri interessi, che il nostro finisca di essere uno dei paesi peggio amministrati del globo. Ma uno scettico, tipicamente mediterraneo, potrebbe far notare che il risveglio sarebbe assai spiacevole, che sul piatto della bilancia esistenziale i sogni pesano più del funzionamento e dei servizi, che l’“incontro de li sovrani” di Trilussa, in fondo, non è una satira del potere, ma una garbata e malinconica lode alle illusioni.

«Bandiere e banderole/penne e pennacchi ar vento/ un luccichio d’argento/de bajonette ar sole/e in mezzo alle fanfare/spara er cannone e pare/che t’arimbombi dentro/Ched’è?chi se festeggia?/È un re che, in mezzo ar mare,/sulla fregata reggia/riceve un antro Re/…/zitto ché adesso parleno…/-Stai bene? – Grazzie. E te?/e la Reggina?/ – allatta/- E er Principino? – Succhia/ – E er popolo? –Se gratta./E er resto? – Va da sé…/[…]/E er popolo lontano,/rimasto sulla riva/magna le nocchie e strilla:/Evviva, evviva, evviva…-/E guarda la fregata/ sur mare che sfavilla». La dura realtà per quanto ben amministrata, gli sfavillii, l’ebbrezza di sentirsi parte di un organismo onirico che ci accoglie e sopravvive, li perderebbe tutti.