di Alessandro Campi

imagesCA20L27SNel modo con cui alcune forze politiche – dalla Lega a Fratelli d’Italia – hanno pubblicamente e platealmente prese le difese di Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino che una decina di giorni fa ha ucciso un rapinatore in fuga (Albano Cassol, un rom che insieme ad alcuni complici aveva appena assaltato una gioielleria, anche se a giudizio dei cultori del politicamente corretto non si dovrebbe fare una simile precisazione di stampo razzistoide), c’è davvero qualcosa di indecente. Qualcosa che va al di là della cinica strumentalità con cui i partiti abitualmente si impossessano di alcuni temi (anche i più scabrosi e delicati) se solo pensano di poterne lucrare qualche vantaggio elettorale e d’immagine. Vi ricordate, a proposito di indecenza, le miserabili polemiche, ammantate da discussioni di natura etico-filosofica, intorno al corpo inanimato della povera Eluana Englaro?

In vita mia non ho mai ucciso (e spero ovviamente che ciò mai accada). Né conosco nessuno che lo abbia fatto – seppure in modo accidentale o fortuito. Ma posso immaginare, a meno che non si parli di qualcuno professionalmente addestrato non ad uccidere, ma alla possibilità di poterlo fare per necessità o dovere (militari, poliziotti, ecc.), che si tratti di una tragedia di quelle che ti segnano per sempre. Non c’è infatti solo il dramma, incommensurabile, di chi perde la vita. C’è anche quello di chi quella vita l’ha tolta: poco importa se per aver premuto un grilletto o per aver schiacciato troppo l’acceleratore dell’auto, e poco importa se sia trattato dunque di un gesto volontario o di una fatalità. Una persona che abbia un minimo di coscienza e sensibilità (come è la maggioranza assoluta degli uomini) difficilmente non potrà essere tormentato dai dubbi e dai rimorsi se mai dovesse accadergli di spezzare l’esistenza di un suo prossimo.

Possiamo dunque immaginare quale sia, in questo momento, lo stato d’animo di Graziano Stacchio, dando per scontato che si tratti, in senso letterale, di una persona “normale”: uno cioè che sino al giorno prima faceva tranquillamente il benzinaio e che il giorno dopo si è trovato a vestire i panni involontari dell’assassino. Al di là delle minacce che pare abbia ricevuto dagli amici o sodali del rapinatore ucciso, al di là delle accuse legali che adesso pesano sul suo capo (“eccesso colposo di legittima difesa”), è facile pensare che il suo peso maggiore – in questo momento – sia d’ordine morale: non si dorme tranquilli col pensiero di aver ammazzato una persona, anche se il fatto che fosse un criminale può forse darti qualche scusante o giustificazione. Stacchio in questo momento vorrebbe forse starsene tranquillo, a meditare su quel che gli è successo insieme a poche e fidate persone, invece di essere portato a esempio da chi del suo dramma intimo semplicemente non se ne cura e si preoccupa solo dei risvolti politico-propagandistici di ciò che è successo.

imagesCAPGXT4NL’aspetto indecente, in questa come in altre vicende analoghe che si sono registrate in passato, sta appunto in ciò: si esprime il massimo della solidarietà, per ragioni di bottega politica, ad una persona dei cui tormenti interiori semplicemente non ci si cura. Se si volesse mandare un segnale di umana partecipazione a chi ha vissuto una vicenda tanto atroce, lo si lascerebbe in pace. E invece lo si spaccia per ciò che probabilmente non vuole essere e non ha mai pensato di essere: un cittadino- giustiziere, un campione della società civile che si sostituisce allo Stato quando quest’ultimo abdica, un difensore dei diritti dei più deboli, uno che non si arrende dinnanzi al sopruso e alla violenza criminale, etc.

Nelle intenzioni di chi lo ha addirittura proclamato un eroe, arrivando ad indossare (anche in Parlamento) delle magliette con su scritto “Io sto con Stacchio”, quest’ultimo sarebbe da considerare dunque un simbolo politico. Il simbolo della giustizia sostanziale contro la legalità formale. Il simbolo quasi hobbesiano di come una comunità, invece di cedere alla paura, si arma e si difende contro i malintenzionati. Il simbolo di come l’istinto di auto-sopravvivenza, che scatta negli individui dinnanzi ad una minaccia o a un’aggressione, sia più forte di qualunque codice etico o religioso: quest’ultimo ti dice che uccidere è un peccato, il primo ti dice che uccidere è talvolta una necessità.

Ma forse queste sono considerazioni d’ordine politico-antropologico un po’ troppo sofisticate. Chi sta usando Stacchio come un vessillo vuole qualcosa di più semplice: dimostrare che lo Stato non difende i cittadini dai troppi immigrati, sbandati e delinquenti per circolano per le nostre strade e che dunque essi fanno bene a difendersi da soli con le armi in pugno. E se capita che ammazzino qualcuno la giustizia non può pensare di accanirsi contro di loro. Il tema politico in gioco è quello – serissimo – della sicurezza (individuale e collettiva). Peccato che non è alimentando la paura che la si vince. Chiedere più protezione dai parte dei corpi di polizia e leggi più rigorose è un conto, pensare che i singoli possano decidere cosa è giusto e sbagliato e arrivare a farsi giustizia privatamente è tutt’altro: si tratta, semplicemente, della differenza tra l’ordine e l’anarchia.

L’indecenza da etico-civile diventa, dal mio punto di vista, politica e ideologica se consideriamo che a cavalcare la campagna a favore di Stacchio (con fiaccolate, sit-in, raccolta di fondi, proclami in rete, campagne di stampa etc.) sono partiti e uomini politici convenzionalmente definiti di destra. Una volta il motto di questi ultimi era “legge e ordine”: esattamente in quest’ordine, nel senso che sono le regole a garantire una convivenza pacifica e stabile. Il loro riferimento istituzionale era rappresentato dallo Stato e dai suoi rappresentanti: dalla magistratura ai carabinieri. Mostravano inoltre grande attenzione per tutto ciò che aveva a che vedere con l’insegnamento religioso e con la sfera cosiddetta dei valori (tra i quali quello della vita dovrebbe stare al primo posto). La destra italiana odierna sembra invece essersi sempre più modellata, rotti i ponti con la sua antica tradizione, sull’esempio di quella individualistica, vagamente anarchia e muscolare che ha la sua patria d’elezione oltreoceano. Una destra che in tutti i suoi pronunciamenti pubblici sembra essere regredita ad una visione della politica tribale e settaria: vale la legge del più forte, contano le logiche territoriali di gruppo, l’appartenenza e l’identità si definiscono solo per opposizione con l’Altro, la sfera della comunicazione razionale è sacrificata alla forza di suggestione di parole d’ordine e sentimenti destinati a sollecitare la sfera emotiva dei singoli, etc.

Questa destra, che per un ventennio è stata persino forza di governo, si trova oggi ad affidare le proprie residue fortune elettorali ad un mix di protesta civile e risentimento sociale, di spirito di rivolta contro il Palazzo e di frustrazione. È insomma convinta che muovendosi nel cuore di tenebra della nostra società, laddove si annidano il disagio economico e paure ancestrali, lo smarrimento che nasce dallo sfibrarsi dei legami affettivi tradizionali e l’inquietudine che deriva da un progresso tecnico più veloce della nostra capacità di adattamento, essa abbia da lucrare e da guadagnare qualche punto percentuale. Il che può anche essere vero, se non fosse che così ci si condanna anche ad un ruolo politicamente residuale (si sceglie di rappresentare quella parte di elettorato che agisce e valuta solo in base ai pregiudizi, alle ansie e alle paure che l’attraversano) e si viene meno a quella funzione pedagogica, costruttiva e regolatrice che la politica, nella misura in cui è un’attività utile e nobile, ha sempre avuto. La politica – quella buona, vera e giusta – non si è mai posta il problema di assecondare gli istinti umani – diversamente saremmo ancora all’età della pietra. Semmai si è posta l’obiettivo di governarli, neutralizzarli e trasfigurarli, attraverso un sistema molto articolato di regole, convenzioni, prescrizioni, tabù e sanzioni.

L’abbiamo fatta lunga. Ma soprattutto abbiamo scritto un articolo inutile. Leggetevi quello che scrivono sui blog e sui social media quei cittadini che a loro volta – al pari di Salvini e della Meloni – considerano Stacchio un eroe padano alla Clint Eastwood: i meno esagitati sono quelli che chiedono di dare fuoco ai campi rom, di arrestare i magistrati che hanno contestato al benzinaio l’eccesso di legittima difesa o di legalizzare la vendita e il possesso di armi da fuoco a chiunque voglia possedere una pistola o un fucile per difendersi. Questo sembrerebbe il clima dominante in Italia o in certe sue zone, che una certa politica si limita – forse saggiamente dal suo punto di vista – a cavalcare. Ma ciò non mi impedisce di pensare che quella di Stacchio sia innanzitutto una tragedia doppia (quella dell’uomo ucciso e quella dell’uccisore che col suo gesto dovrà convivere per sempre) e che il registro giusto per misurarsi con essa sia quello della pietà. Per entrambi.

* Editoriale apparso su “Il Giornale dell’Umbria” del 14 febbraio 2015.

 

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