di Chiara Moroni
Il linguaggio è l’humus della conoscenza, è la ricchezza sociale di una comunità, è al tempo stesso il seme e il frutto del vivere civile. Le parole hanno due dimensioni fondamentali: la prima è quella relativa alla funzione di definizione dei confini della nostra conoscenza, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti della mia conoscenza” (Wittgenstein); la seconda è legata alla produzione di azioni e alla costruzione della realtà, le parole prefigurano le azioni, le parole “fanno mondo”.
Il linguaggio che oggi condividiamo è un linguaggio che pecca di due enormi limiti: da un lato è stato privato della sua funzione di produzione di senso per divenire mero simbolo e conseguentemente, dall’altro, è stato deresponsabilizzato.
La nostra società e la sua cultura tendono alla semplificazione cognitiva. Gli strumenti tecnologici di cui disponiamo amplificano la rapidità e la razionalizzazione del pensiero e quindi spingono verso una riduzione della complessità del “senso”. Il linguaggio è al tempo stesso artefice e vittima di questa semplificazione. Esso da un lato si semplifica per aderire alla nuova realtà, dall’altro, così ridotto, contribuisce ad alzare sempre di più il livello di povertà di percezione e categorizzazione della realtà stessa.
Le parole che vengono utilizzate nello spazio pubblico tendono a perdere il loro valore intrinsecamente cognitivo e critico, per divenire simboli di un pensiero fisso, non articolato. Esse vengono utilizzate con la leggerezza e l’acriticità proprie di un utilizzo del linguaggio privo di responsabilità pubblica e civile.
Un esempio di questo processo privativo, di senso critico e di responsabilità, del linguaggio è dato dall’utilizzo politicamente deviante del termine “fare”.
Il termine “fare” prefigura un’azione che interviene sulla realtà e politicamente può assumere un significato importante nella prospettiva del governo della cosa pubblica. Nell’ambito di senso della politica, esso può racchiudere un pensiero critico e una proposta politica positiva, atta ad agire sulla realtà. La politica del “fare” è stata un’arma politicamente vincente, proprio perché, nella sua semplicità, racchiudeva un insieme cognitivo e critico molto forte, che rappresentava, al tempo stesso, una proposta positiva per il futuro e una critica negativa del passato. Però, con il passare del tempo, questo termine ha perso la sua forza di agire sulla realtà soprattutto perché è stato separato dal pensare, esso è divenuto mero simbolo – che per definizione è acritico e stabile – di qualcosa che si rivela astratto. Il “fare” si è trasformato da strumento dell’azione politica a fine della sua retorica, e questo perché è stata ridotta la centralità del pensiero critico che sta dietro ad ogni azione, è stata ridotto il valore politico e ideale del “come” e del “quale” azione si pone in essere.
Nel momento in cui le parole divengono simboli, private quindi della forza critica e discorsiva, subiscono un processo di deresponsabilizzazione, non producendo più effetti sulla realtà, ma solo sulla dimensione immaginifica e simbolica. In altre parole, con l’utilizzo di alcune parole, non si assume più la responsabilità di quello che implicano in termini di senso e di costruzione della realtà. Esse, prive della responsabilità che tutto il linguaggio dovrebbe implicare, sono utilizzate in modo strumentale come “oggetti” simbolici e non più come produttrici di senso critico e cognitivo.
Semplificazione e deresponsabilizzazione del linguaggio, riduzione delle idee a mera prassi, sono i mali della politica italiana e del discorso pubblico in generale. La politica dovrebbe tornare ad utilizzare in senso critico la ricchezza cognitiva delle parole volendo conseguentemente assumere la responsabilità che esse implicano.
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