di Davide Parascandolo
Il 5 dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha autorizzato un intervento militare gestito dalla Francia per arginare le brutali violenze che stanno avendo luogo nella Repubblica Centrafricana. La situazione è precipitata nella scorsa primavera, quando l’allora presidente François Bozizé è stato destituito dalle milizie ribelli di Séléka, una coalizione composta da movimenti armati provenienti in gran parte dal Nordest del Paese, area storicamente emarginata dal governo centrale e afflitta da sottosviluppo e insicurezza, nonché zona a maggioranza islamica in uno Stato in prevalenza cristiano. Dopo l’autoproclamazione del nuovo presidente Michel Djotodia, lo scioglimento della coalizione avvenuto a settembre e lo scoppio di una controffensiva capeggiata da milizie cristiane e pro-Bozizé definite anti-balakas (letteralmente anti-machete nella lingua locale), il Paese è nel caos, e la guerra civile che ne è seguita, con le ritorsioni degli ex Séléka sulla popolazione civile, ha già provocato un numero molto elevato di vittime.
La Francia, constatato il fallimento nel gestire la crisi da parte delle forze sudafricane (legate alla Repubblica Centrafricana da un accordo bilaterale di sicurezza) e dell’Unione Africana nel suo complesso, ha immediatamente lanciato la “Operazione Sangaris”, intervento partito peraltro in concomitanza del 26° vertice franco-africano tenutosi a Parigi il 6 e 7 dicembre. Il presidente Hollande ha deciso di inviare un contingente di 1600 soldati per dare supporto alla MISCA (Missione Internazionale di sostegno alla Repubblica Centrafricana), una forza di pace panafricana che dovrebbe arrivare a schierare sul campo un totale di 6000 uomini. L’obiettivo dichiarato è assicurare al più presto il disarmo di tutti i gruppi armati, con il fine ultimo di creare condizioni di stabilità per lo svolgimento di elezioni libere e pluraliste. Il presidente transalpino ha infine previsto l’addestramento annuale di 20 mila soldati africani con lo scopo di formare una forza di intervento rapido nel continente.
Sebbene l’azione sia stata giustificata esclusivamente con motivazioni umanitarie, molti ritengono che la solerzia francese debba essere inquadrata in ben altri schemi. In effetti, essa si inserisce con precisa linearità in quella che è meglio conosciuta come la politica della Françafrique, un indirizzo di politica strategica inaugurato durante la presidenza De Gaulle con la nascita della cosiddetta “cellula africana” dell’Eliseo, un apparato operante al fine di influenzare la politica delle ex colonie per proteggere i corposi interessi francesi in Africa centrale. D’altra parte, l’Africa rappresenta una delle tre direttrici fondamentali atte ad assicurare la grandeur francese, unitamente al possesso dell’arma atomica e al diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Nonostante i proclami e le promesse di smantellarla, la Françafrique sembra rimanere un cardine della politica transalpina, e i numerosi interventi posti in essere sin dagli anni Sessanta, epoca in cui ebbe termine gran parte del processo di decolonizzazione, lo testimoniano. Solo per citare i più recenti e rilevanti, ricordiamo i due interventi in Costa d’Avorio nel 2002 (“Operazione Liocorn”) e nel 2011, l’intervento in Mali (“Operazione Serval”) dello scorso gennaio e quello, sempre nel 2011, in Libia, anche se quest’ultima non può essere ascritta ad un’area di diretta influenza francese. Ma l’attivismo di Parigi in Africa è evidente e non può essere certo spiegato soltanto con argomenti di carattere umanitario o con quello del contenimento dell’islamismo radicale e dello jihadismo. Lo stesso White Paper francese per la difesa e la sicurezza nazionale del 2013 definisce chiaramente il Sahel, dalla Mauritania al Corno d’Africa, compresa parte dell’Africa subsahariana, “un’area di interesse strategico di grande priorità per la Francia”.
Il mantenimento della stabilità nella regione è pertanto assolutamente funzionale alla protezione degli interessi delle grandi multinazionali francesi operanti nell’area. I settori chiave vanno dall’energetico, allo sfruttamento delle materie prime, ai trasporti, alle telecomunicazioni. Occorre richiamare un dato su tutti: il 40% della ricchezza nazionale francese deriva dalle importazioni provenienti dalle ex colonie africane. La stessa Repubblica Centrafricana è ricchissima di risorse naturali, pur essendo uno dei Paesi più poveri del mondo. Oro, diamanti, bauxite, fosfati, petrolio e uranio sono le risorse principali. Ed è proprio intorno all’approvvigionamento di uranio che ruotano molti degli interventi francesi. Non a caso, il Mali medesimo è dotato di grandi giacimenti, per non parlare di quelli del Niger che, di fatto, assicurano attualmente il 26% dell’import francese di uranio, anche se Parigi punta ad arrivare presto ad una quota pari al 40%. Appare dunque evidente come sia imprescindibile per la Francia assicurarsi un canale tramite cui far fluire in sicurezza uranio e altre risorse lungo un asse Est-Ovest che attraversi Ciad, Niger e Mali, fino ad approdare ai porti del Senegal.
A tutto questo va ad aggiungersi un’ulteriore priorità strategica: contenere l’inarrestabile penetrazione cinese in Africa. Lo stesso Bozizé aveva aperto agli investimenti cinesi e, non a caso, la Francia ha lasciato che il colpo di Stato di Séléka (il cui comitato politico aveva peraltro sede a Parigi) fosse condotto a termine. In effetti, Repubblica Centrafricana e Mali hanno firmato entrambe contratti di esplorazione con le compagnie petrolifere cinesi, andando a ledere gli interessi della francese Total e delle altre multinazionali occidentali. Oltretutto, i cinesi sembrano essere molto attivi anche in Ciad, attualmente il primo Paese francofono per produzione di petrolio. Tutto ciò dimostra come gli interventi di Sarkozy in Costa d’Avorio e in Libia e quelli di Hollande in Mali e in Repubblica Centrafricana non possano essere concepiti solo come strumenti per rinvigorire popolarità e immagine in chiave di politica interna. Neanche la mera finalità umanitaria sembra poterli giustificare. Sono piuttosto la prova lampante che la politica strategica della Françafrique gioca ancora un ruolo centrale, inserendosi a pieno titolo nel solco di quella che molti analisti non esitano a definire come una forma di neocolonialismo.