di Dino Cofrancesco*

Franca Rame è stata una splendida donna e una grande attrice alla quale non sono certo mancati i dovuti riconoscimenti per la lunga e brillante attività artistica, compresa una laurea honoris causa conferitale dall’Università di Wolverhampton nel 1999. Un indubbio talento, però, messo sovente al servizio di un impegno ideologico che, se si fosse tradotto in capacità di mobilitare le masse elettorali, ci avrebbe dato un regime politico non di tipo sovietico ma, peggio, di tipo caraibico-guevarista. Le sue generose battaglie in difesa dei diritti delle donne e degli emarginati erano poche rose in un mazzo di lussureggianti ortiche. Mario Cervi è stato messo alla gogna per aver scritto, sul ‘Giornale’, che «l’attrice-agitatrice portò il fanatismo in scena», ha avuto il torto di non condividere il giudizio di Moni Ovadia: «Franca Rame è stata una delle la più grande donna della nostra storia repubblicana. È stata un paradigma rarissimo di passioni civili perché quella per il teatro era la stessa passione che la animava per la politica per le sue lotte contro l’oppressione, in particolare delle donne». Con innegabile impudenza, Cervi ha osato scrivere: «Non si può ricordare una donna che praticò il settarismo portato al massimo limite d’incandescenza con frasi di retorico compianto. Franca Rame non lo merita. È stata una grande pasionaria chiusa nei suoi odi e nei suoi amori, come l’implacabile Dolores Ibárruri della guerra civile spagnola. Le va reso, adesso che non c’è più, l’omaggio della verità: almeno la soggettiva verità di chi ha il compito di commemorarla». Intollerabile per i quattro cinciallegri di Caterpillar (Filippo Solibello, Marco Ardemagni, Cinzia Poli, Natascha Lusenti) che su Rai News 24 si ergono a gai e sorridenti custodi del ‘senso comune’ diffuso nel popolo di sinistra.

C’è un solo passo che non ho condiviso dell’articolo di Cervi, quello in cui si accenna allo stupro subito dall’attrice nel 1973. «Al fanatismo teatrale di Franca Rame alcuni delinquenti intrisi d’ideologia fascistoide reagirono con il suo rapimento e con il suo stupro. Avvenne nel 1973, e solo cinque anni dopo la Rame ne parlò, in scena. Anche questo turpe episodio rafforzò il femminismo al quale si era sempre dedicata». Eh no, troppo poco, caro Cervi. Quell’episodio efferato ha rappresentato un salto di qualità talmente feroce e brutale da non potersi riguardare come ‘reazione’ (ovviamente ingiustificabile anche per Cervi) e anzi autorizza a considerare la prescrizione del reato, nel 1998, come una delle pagine più nere della storia della magistratura italiana, assieme alla condanna di Enzo Tortora. Il pensiero che gli stupratori, Angelo Angeli, un certo Muller e un certo Patrizio – v. l’articolo di G.M. Belli, I carabinieri ci dissero: stuprate Franca Rame, in ‘Repubblica’10 febbraio 1998 – siano a piede libero, diciamocelo francamente, è tra quelli che fanno vergognare di essere italiani.

Per il resto, però, il pezzo di Cervi m’è parso molto equilibrato, non diverso, nei toni e nel rispetto, da quello di Michele Brambilla sulla ‘Stampa’ del 29 maggio. E la sua conclusione – «Con la sua bellezza e con la sua bravura poteva avere una vita facile e sontuosa, da regina della scena. Ha scelto una strada molto diversa: della quale moltissimi non condividono nulla. Usò gli strumenti di comunicazione e di libertà che una democrazia come quella italiana le offriva nel contempo scagliandosi contro quella democrazia. Non fu convincente ma fu una combattente» – a mio avviso, resta ineccepibile. Non così può dirsi dell’articolo apparso su ‘Libero’ già nel titolo irriverente e irridente: Dagli esordi come soubrettona alle tirate politiche a favore delle Br, fino all’elezione con l’Idv: una vita da compagna. Quel soubrettona, infatti, sa di spirito (e di lazzi) di caserma e veicola quel perbenismo sagrestano e piccolo-borghese che, pensando a Teodora o a Evita Peron, non riesce a dissociare le due donne–che, in secoli e in contesti diversi, hanno scritto, nel bene e nel male, decisive pagine di storia – dai loro trascorsi giovanili (anche se, a differenza delle altre due, la nostra soubrettona non aveva poi nulla di cui doversi vergognare). È la stessa volgarità che si ritrova nella rievocazione delle burrascose vicende matrimoniali della coppia Dario Fo/Franca Rame (nel 1987 stettero per divorziare) dove torna quel moralismo provinciale per il quale nessuna pietra può essere scagliata da chi non è senza peccato e se si è un puttaniere non è lecito parlar male del governo Berlusconi.

A parte queste cadute di stile giornalistiche – che mi è impedito definire ‘qualunquistiche’ a causa della simpatia che ho sempre provato per Guglielmo Giannini e per il suo movimento – rimane il fatto, duro come l’acciaio, che Franca Rame (col marito) ha sposato tutte le ‘cause’ e tutti i valori politici in conflitto mortale con la ‘società aperta’. Al suo funerale, il figlio Jacopo è riuscito persino a sdoganare una parola come comunismo, che nel programma di Nichi Vendola e del Sel non compare neppure una mezza volta (come del resto, non compare ‘socialismo’). «Dio c’è ed è comunista. Si sono estinti i dinosauri e si estingueranno anche queste persone che non conoscono amore e dignità. Dio non solo è comunista, ma è femmina».

Franca Rame ha inneggiato a tutti i movimenti eversivi che, in ogni parte del mondo, in nome dei ‘dannati della terra’ avevano dichiarato guerra alla città di Locke, di Tocqueville, di Einaudi, di Jefferson – dalle ‘Pantere nere’ alle ‘Brigate rosse’ – ha offerto il suo sostegno a Renato Curcio in carcere, ha solidarizzato con gli assassini di giovani militanti dell’estrema destra, ha esaltato i palestinesi, non s’è risparmiata il suo granello di sabbia alla colpevolizzazione del commissario Calabresi: è stata, insomma, l’espressione a tutto tondo, per dirla con Indro Montanelli, di quella «deriva radical chic di una borghesia che aveva, a suo modo di vedere, ceduto al conformismo imperante, illudendosi di conquistare il diritto a un posto al sole nella nuova Italia comunista, o gruppettara, che ci si illudeva che sarebbe nata di lì a poco».In politica è stata solo questo? Sicuramente no. Lo ripeto, le sue battaglie femministe sono state talora encomiabili e lo stesso va detto della sua sensibilità garantistica (anche se contraddetta vistosamente dalla candidatura nell’Italia dei Valori, il partito dei giustizialisti e dei ‘manettari’) e della sua laicità (troppo spesso, però, sconfinante in un laicismo fanatico ed esasperato). Ma di ‘battaglie encomiabili’ ne fanno anche gli estremisti di segno opposto e anche per loro vale la metafora delle poche rose (la richiesta di sicurezza, il richiamo alla coesione nazionale, il rispetto delle tradizioni) frammiste a spinosi arbusti (nel caso dell’estrema destra, il latente razzismo culturale, l’insofferenza per le procedure democratiche, il bigottismo religioso etc.).

Naturalmente ognuno ha la libertà di schierarsi con chi vuole e di fare le battaglie che gli detta la coscienza, si chiami Franca Rame o Teodoro Buontempo, er pecora. Davanti alla comare secca, per ciascuno s’impongono rispetto e riserbo. Quello che suona male, però, è il doppiopesismo simbolico per cui a un estremo c’è chi diventa, in morte, un’icona civica e, all’altro estremo, chi, al contrario, abbandonando questa valle di lacrime, è giusto che sia rimpianto solo dagli amici (e dai camerati).

In realtà, non è Franca Rame – parce sepulta – a doverci fare riflettere ma l’«Italia di Franca Rame» quale si è mostrata, quasi al gran completo, al funerale dell’attrice, tra panni rossi, pugni chiusi, ‘Bella ciao’, grandi ritratti di Che Guevara, lo spietato direttore del carcere de La Cabaña che ordinava ai suoi: «nel dubbio ammazzate!». È quest’Italia che doveva preoccupare i media non conformisti. Le esequie laiche di Milano, infatti, hanno messo in evidenza la sindrome totalitaria di un ‘popolo’ (la sinistra antagonista) che non si sente una «parte» del paese – e sia pure, com’è suo diritto, la sanior pars – ma l’unico erede legittimo, il nucleo, puro e duro, di una rivoluzione antifascista tradita dai partiti dell’arco costituzionale (un tradimento oggi riconfermato puntualmente dalle ‘larghe intese’ del governo Letta).

Quando morivano un esponente democristiano o un esponente socialista o un esponente liberale, lo spirito della ‘commemorazione’non aveva nulla, per così dire, di ‘esorbitante’: la famiglia ideologica dello scomparso si stringeva attorno al feretro, riceveva le condoglianze di alleati e avversari politici,e, ricordando le benemerenze del ‘caro estinto’,si autorappresentava come un ‘pezzo’ della madrepatria che aveva contribuito al suo progresso civile e materiale. Questo senso realistico del ‘limite’, questa rinuncia alla pretesa di convertire miscredenti e corrotti alle proprie idee politiche e sociali mostravano quanto quei partiti e altri della Prima Repubblica, al di là delle loro manchevolezze e dei loro storici errori, rimanessero oggettivamente ancorati a una logica pluralistica e liberale che riservava il successo elettorale a quanti sapessero conquistarselo sul campo.

Al funerale di Franca Rame, invece, si sono visti esponenti della cultura e della politica convinti di incarnare i sacri principi della Magna Carta o una democrazia ‘più avanzata’ finalmente in grado di coniugare la libertà libertaria con la giustizia sociale. Nella bara avvolta dalle bandiere rosse non giaceva una donna che aveva, con tanta innegabile passione, recitato la sua parte ma, hegelianamente, un individuo cosmico-storico che, interpretando lo spirito del tempo, aveva ripreso il vessillo del proletariato dipinto da Pellizza da Volpedo (che non poteva mancare accanto a Che Guevara) lasciato cadere da una sinistra, in gran parte, collusa con l’aborrito ‘sistema’. Che questa sindrome non appaia inquietante è la riprova sicura dello spappolamento culturale che, in questi ultimi tempi, segue a ruota (e acuisce) la crisi economica e politica. Si stenta a comprendere che il confronto democratico non ha più senso se una squadra si autolegittima con accenti e idealità alla Girolamo Savonarola e condanna l’altra a espressione della corrotta corte pontificia.

Tali considerazioni riguardano gli ‘stili ideologici’ ma non ancora i ‘contenuti’ delle ideologie. E qui l’anomalia italiana si fa ancora più pericolosa… Ci troviamo, infatti, dinanzi a una tribù politica che ha sempre considerato il ‘totalitarismo’ una parola da guerra fredda; che si è sempre rifiutata di porre sullo stesso piano dittatura fascista e dittatura comunista; che ha sempre considerato le tragedie provocate dall’una – culminanti nel Gulag – dovute a deprecabili errori di dirigenti («i compagni che sbagliano») e le tragedie provocate dall’altra – culminanti nel Lager – come esiti naturali di religioni politiche regressive. Per i compagni di Dario e Jacopo Fo, è come se la storiografia dei Renzo De Felice, degli Augusto Del Noce, dei Domenico Settembrini, dei Jean François Revel, degli Zeev Sternhell, dei François Furet non fosse mai esistita. Il loro heri dicebamus è fermo al gramsciazionismo e, per quanto riguarda la nostra ‘guerra civile’ del 1943-45, Giampaolo Pansa e Roberto Vivarelli non sono che spregevoli epigoni di Giorgio Pisanò o di Rutilio Sermonti. Come i reduci aristocratici di Coblenza, tornati in Francia al seguito dei vincitori, anche dopo la Caduta del Muro, non hanno nulla imparato e nulla dimenticato. Per loro, la pianta dell’antifascismo va annaffiata continuamente e se potessero epurare i morti, rifarebbero il processo a Papa Formoso e riappenderebbero il duce a Piazzale Loreto.

La commemorazione al Piccolo Teatro di Milano ha portato allo scoperto, se ce ne fosse stato ancora bisogno, queste intenzionalità, impensabili un quarto di secolo fa, nei giorni successivi all’esaltante ‘secondo 89’, quando tutti (persino gli eredi di Stalin) si dicevano liberali:è stata un raduno di combattenti e di reduci, un’occasione per ritrovarsi e ribadire le vecchie parole d’ordine. Una differenza abissale rispetto al funerale di Enrico Berlinguer:il leader sardo, un autentico ‘capo carismatico’, aveva ricevuto l’omaggio non solo dei ‘compagni’ di partito ma altresì di avversari storici, alcuni dei quali irriducibili come il segretario del MSI Giorgio Almirante (peraltro molto apprezzato per il suo beau geste). Nel momento del commiato, la figura di Berlinguer era quella del capitano dell’altra squadra al quale andava concesso l’onore delle armi. Nella camera ardente di Franca Rame, invece,un ‘berlusconiano’ avrebbe potuto mettere piede solo a suo rischio e pericolo: come minimo, il grido «ora e sempre Resistenza!» gli avrebbe fracassato i timpani. A ben riflettere, comunque, anche questo può comprendersi: non si commemora Che Guevara – come fece la fascistissima Falange nella Cattedrale di Madrid – tendendo la mano agli amici degli yankee e degli israeliani.

Quello che non si capisce, invece,è la beatificazione di Franca Rame (che verrà tumulata al Famedio accanto ad Alessandro Manzoni) nei giornali della borghesia italiana, sia moderata che progressista. Dal ‘Corriere della Sera’ a ‘Repubblica’, quasi tutti hanno ricordato il «suo impegno politico che le ha procurato grandi adesioni ma pure critiche» (Gian Luigi Paracchini) come se si trattasse di posizioni e di battaglie iscritte in una normale dialettica democratica – ad es., l’essere pro o contro l’abolizione delle province o il rimanere in zona euro. Nel ‘Fatto quotidiano’, i toni si sono elevati all’epica: Franca e Don Gallo «ci hanno insegnato senza insegnare, perché bastava vedere come guardavano e parlavano con le persone». Furio Colombo, divenuto in vecchiaia una sorta di patetico Jean Paul Marat di Castiglion Dora, ha rammentato le battaglie fatte insieme al Senato:«Di fronte a noi la canea del gruppo di attacco detto “l’opposizione”. Ovvero il mondo, fascista o borghese o pregiudicato, di Berlusconi. Un continuo forte rumore di fondo che è cominciato subito ed è finito solo con la scena di mortadella e champagne consumati in aula il giorno della caduta di Prodi» «Quel che Franca aveva capito era che eravamo già alleati con la gente di Berlusconi, come lo sono Alfano e Letta adesso».

Su ‘Repubblica’, Gad Lerner ha condito l’apologia con un episodio a dir poco inquietante:« Non potrò mai dimenticare, in una livida giornata genovese dell’aprile 1980, quando bussai alla sua camera d’albergo per informarla che il vecchio avvocato Edoardo Arnaldi si era sparato un attimo prima che i carabinieri lo arrestassero in quanto militante delle Brigate Rosse. Franca era al tempo stesso affranta e furiosa di quello che avvertiva come il tradimento di una nobile causa.». Già per lei, si trattava di una «nobile causa»-l’assalto alle istituzioni democratiche sferrato dalle BR – e la ‘soggettività’, ogni soggettività, va rispettata. Ma tale rispetto vale per tutte le soggettività o solo per quelle legate a una ‘buona causa’, anche se con le armi improprie di una protesta che non arretra neppure dinanzi alla lotta armata e all’assassinio (di Aldo Moro)?

I rappresentanti dell’Italia ufficiale hanno fatto bene a esaltare le oggettive qualità artistiche di Franca Rame e le sue straordinarie performance nelle opere teatrali del marito – talora geniali ma certo non appartenenti al genere ‘satira politica’ che è sguardo lucido e spietato al di fuori della politica, non lotta sociale combattuta sul palcoscenico invece che nelle piazze e nelle sezioni di partito: sono andati decisamente sopra le righe, invece, nell’elogio delle sue «battaglie civili» (un elogio che quanto prima si tradurrà nella richiesta di dedicarle una via a Milano).

No, per chi crede profondamente nei valori della ‘società aperta’, nel gioco democratico, nelle virtù del mercato, nel pluralismo – che è reale non solo se si apre al nuovo ma anche se non demonizza il vecchio -, nell’equivalersi di tutti i programmi di riforma o di conservazione dell’esistente, purché non attentino alle libertà politiche e ai diritti civili, Franca Rame non ha impartito alcuna lectio magistralis. Quando calava il sipario e la recita era finita, gli spettatori ,infiammati dalle sue‘coraggiose’denunce (contro i preti,i ladri, i fascisti…), si sentivano nelle disposizioni d’animo dei cittadini romani dopo il discorso di Antonio sul cadavere di Cesare: «Infami traditori!/Oh, che orribile vista! Quanto sangue!/Vendicarlo dobbiamo./Sì, vendetta!/Vendetta! Attorno, frugate, bruciate,/incendiate, uccidete, trucidate,/non resti vivo un solo traditore!». Era questa l’educazione civica di cui aveva bisogno una «nave senza nocchiero in gran tempesta» come l’Italia? E a chi trasforma l’avversario politico in nemico mortale vanno eretti i monumenti della memoria e della riconoscenza?

*Contributo già apparso on line sul sito Fattore Erre

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