di Leonardo Varasano

Tangentopoli? Un fenomeno a cui Stati Uniti e Cia non furono estranei. Di Pietro? “Un burattino esibizionista”. La strage di Bologna? “Un incidente – con cui nulla avrebbero a che fare Mambro e Fioravanti – accaduto agli amici della resistenza palestinese”. I magistrati? “In Italia, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi”. D’Alema? “Un comunista nazionale e democratico”, “uno con i coglioni”, “antigiustizialista vero”. Pier Ferdinando Casini? Semplicemente, sprezzantemente “Pierfurby”. Così si esprimeva Francesco Cossiga in un’intervista celebrativa dei suoi ottant’anni, concessa ad Aldo Cazzullo ed apparsa sul Corriere della Sera l’8 luglio del 2008.

Spontaneo, diretto, corrosivo, sferzante fino all’irriverenza: l’ex Presidente della Repubblica era anche questo. Anche ma non solo. Quella di Cossiga – il cui cognome fu spregiativamente storpiato in “Kossiga” dopo i durissimi scontri tra studenti e forze dell’ordine del 1977, quando guidava il Ministero dell’Interno – era ed è tutt’ora una figura enigmatica, divisiva e contraddittoria.

Tra i maggiori protagonisti della politica italiana per oltre mezzo secolo, il “picconatore” fu, come scrisse Marcello Veneziani in un puntiglioso necrologio, un uomo dall’indole anfibia, cattolico e amico della massoneria, notabile e guastatore, moderato ed estremista, liberale ed eversivo, tragico e grottesco. Questa complessità lo rende, a tutt’oggi, un personaggio meritevole di approfondimenti, indagini e riflessioni.

A distanza di un anno dalla sua scomparsa – morì il 17 agosto 2010, ad ottantadue anni -, la poliedricità, l’affabilità e l’umanità dell’ex Presidente della Repubblica emergono bene in un agevole e singolare libretto appena pubblicato da Aliberti: Francesco Cossiga. L’Italia di K (prefazione di Pier Luigi Celli). L’autore – qui risiede la più importante particolarità del volume – è Mario Benedetto, giornalista professionista neppure trentenne, già “discepolo” di Cossiga.

L’incontro avvenne quando Benedetto, allora laureando ventunenne, entrò in contatto con il “picconatore” perché lo aiutasse nell’elaborazione della sua tesi di laurea (relatore Gaetano Quagliariello). Fra i due, nonostante la notevole distanza di status e di età, s’instaurò un rapporto cordiale e quasi d’amicizia. L’Italia di K è il resoconto di quell’esperienza eccezionale tra un semplice studente e un’icona dell’Italia repubblicana.

Il ritratto di Cossiga offerto da Benedetto è serio e giocoso al contempo – come si addice al personaggio -, a tratti addirittura filiale. “Buono non sono”, diceva di sé l’ex Capo dello Stato, picconando anche la propria persona. Ma L’Italia di K ci rivela un Cossiga umano e spontaneo, tanto misterioso quanto semplice e naturale, oltre che protagonista di uno straordinario cursus honorum (maturità a soli 16 anni, approfittando di una lunga degenza, laurea a 20, docenza accademica, elezione in Parlamento, sottosegretariato, ministero, presidenza del Consiglio, presidenza del Senato e presidenza della Repubblica).

Nel libro, di facile lettura, non mancano aneddoti vecchi e nuovi. Dalla bandiera dei quattro mori – emblema della fiera “sarditas” di “K” – a cui era affidata l’accoglienza di casa Cossiga, al grande telefono in cui ogni tasto corrispondeva al numero diretto di un ministro o sottosegretario.

Quella di Cossiga, sostiene Benedetto non senza nostalgia, è “una figura da ricordare e rivalutare”. L’ex Capo dello Stato fu una persona libera e – come Silvio Berlusconi – un grande comunicatore, dotato di notevole intuito. Eletto al Quirinale, si definì il “Presidente della gente comune”, e lo fu realmente: era infatti solito concedersi a tutti con simpatia, mantenendo autorevolezza e affabilità. “Paladino degli estremi”, come scrive Celli, “K” era incline all’umorismo, all’ironia – definì Occhetto uno “zombie coi baffi” – e all’autoironia. Amante delle esternazioni, anche forti, arrivò ad avvertire il Csm che ne avrebbe ordinato l’accerchiamento militare se la magistratura avesse insistito nella sua ingerenza nei confronti della politica. Gelosissimo della vita privata – riuscì per anni a non far trapelare nulla del travagliato rapporto, culminato nel divorzio e nell’annullamento del matrimonio, con la moglie Giuseppa Sigurani -, il “picconatore” sapeva cosa comunicare e come farlo: ciò che poteva apparire improvvisazione in realtà non lo era.

Assurto alla Presidenza della Repubblica, Cossiga vagheggiò una sorta di rivoluzione. In un messaggio alle Camere del giugno 1991 prospettò una Grande Riforma non solo politica ma morale, civile e trasversale rispetto a tutti gli ambiti della società. Leale alle istituzioni, picconò il sistema, esternò la sua volontà di cambiamento, sostenne la necessità di ammodernare la Costituzione, prospettò l’elezione diretta del Capo dello Stato e la tutela delle alte cariche: esigenze vere e strutturali di cui la nostra democrazia ha ancora bisogno.

Il lascito, il segno profondo dell’operato lungimirante di Cossiga, è forse proprio questo: aver colto la necessità di una rigenerazione istituzionale e civile. “K” non c’è più, ma le questioni che poneva sono di straordinaria attualità: il bisogno di riforme resta impellente. Oggi, forse, più di allora.